Che bello coricarsi nel letto alla sera e pensare alla Royal Rumble. Sì, perché in questo periodo dell’anno, mentre tutti sono indaffarati con regali e cenoni, il fan del wrestling pensa solo a chi sarà il vincitore della “Rissa Reale“: un particolare tipo di match che determinerà il number one contender per la cintura WWE. Una manifestazione bella, nobile e predeterminata. Ed è proprio quest’ultima caratteristica che intrappola l’appassionato in una serie di pippe mentali senza fine come una previsione del vincitore da ricercarsi nelle voci di corridoio più inverosimili o nelle passate scelte degli sceneggiatori dello show. Potrei scrivervi cosa mi porta a pensare che Roman Reigns vincerà la prossima Royal Rumble, ma necessiterei di argomentazioni ben più estese di questa recensione e, finché Pixel Flood non diventerà un sito di wrestling, non voglio snervarvi con chiacchiere inutili da squilibrati. Preferisco parlarvi di WWE 2K15.
Era da un po’ di tempo che i fan chiedevano a gran voce uno svecchiamento grafico dei videogiochi targati WWE, rimasti ancorati ad un metodo di concepimento prossimo ad i titoli usciti sulle console a 128 bit, soprattutto per quello che riguarda le animazioni degli atleti. Non che i WWE 2K abbiano mai brillato nel gameplay o nella struttura di gioco, ma è da troppo tempo che i titoli sviluppati da Yuke’s non riescono a riprodurre a schermo l’esperienza di uno show WWE con una resa grafica e sonora decente rispetto alla macchina su cui stanno girando. Il co-sviluppatore Visual Concepts, studio già responsabile della veste grafica degli NBA 2K, ha provato ad ovviare al problema costringendo gli atleti a lunghe sessioni di motion capturing e di face scanning, riproducendo ogni minima espressione facciale o movimento sul rispettivo alter ego digitale. In alcuni casi il risultato è eccezionale: Randy Orton su tutti è stato curato in maniera maniacale, dalla porosità della pelle alle animazioni durante l’esecuzione di manovre offensive e difensive. Lo stesso trattamento non è però stato riservato ad altri personaggi, che sono chiaramente portati a schermo con metodi meno sofisticati, spesso aggiungendo solo qualche poligono ad i vecchi modelli di WWE 2K14. Questioni puramente logistiche: perché se è un wrestler ha un contratto da part-timer (Chris Jericho), oppure se abbandona la federazione di Stamford per forti dissapori con la dirigenza (CM Punk), oppure se tragicamente muore (Ultimate Warrior) è chiaro che non gli sarà possibile partecipare alle sedute di face scanning. Questa discontinuità nella realizzazione delle superstar crea purtroppo un fastidioso contrasto tra di esse, andando a rovinare quello che avrebbe potuto essere un bel colpo d’occhio. Un’altra problematica logistica sono gli attire datati degli atleti: un difetto estetico da ricondursi alla natura estremamente volatile di un business come il Pro Wrestling, abituato a cambiare con una velocità troppo elevata per gli standard dell’industria videoludica. E passi se John Cena nel videogioco indossa una maglietta che non si vede da mesi negli show dal vivo, ma vedere la stable dello Shield ancora unita, nonostante gli ex-membri da mesi abbiano cambiato abbigliamento e musica d’entrata, è abbastanza obsoleto. In tal senso non sono previste patch di aggiornamento, come potrebbe accadere nei giochi calcistici per rimediare ai trasferimenti del mercato di Gennaio, però si può avviare a questa mancanza grazie alla possibilità di modificare gli attire sfruttando l’apposito editor.
Sembra incredibile, ma la nota più dolente di questo WWE 2K15 è proprio la modalità WWE Creazioni, da sempre punto di forza del franchise, anche ai tempi di THQ. Tutta le possibilità di personalizzazione presenti nei precedenti capitoli sono improvvisamente svanite nel nulla, perse nella furia di dover necessariamente affrontare il salto generazionale. Pochi vestiti, pochi accessori, poche capigliature stravaganti, non è possibile neppure creare un wrestler donna. La scelta di affidarsi a molte animazioni della scorsa generazione ha permesso di salvare l’editor di mosse. Del tutto assente la possibilità di creare le arene, le cinture, le storyline personalizzate e di importare musiche d’ingresso. Come se non bastasse, il tempo medio per creare un personaggio da zero è notevolmente aumentato, a causa degli estenuanti caricamenti richiesti per ogni singola operazione. L’unica vera aggiunta è la possibilità di caricare delle immagini sul sito 2K, permettendo di creare una texture dalla foto del proprio volto, oppure di importare dei loghi per impreziosire un capo di abbigliamento.
Una volta creato il nostro alter-ego si potrà finalmente affrontare la modalità carriera. Partendo dal Performance Center, scuola di wrestling fondata recentemente dalla WWE ad Orlando, si arriverà a conquistare il titolo WWE a Wrestlemania, passando per tutti gli show della compagnia, NXT compreso. Modalità abbastanza curata durante le prime ore, che però diventa prestissimo un noiosissimo susseguirsi di match senza senso, sprovvisti di alcun tipo di storyline o stipulazione speciale a donare un po’ di pepe. Ben più riuscita la modalità 2K Showcase che, similmente a come accadeva nello scorso episodio con la modalità 30 Years of Wrestlemania, permette di ripercorrere i momenti più esaltanti della storia WWE. Più specificatamente si concentrerà su due faide: quella tra Shawn Michaels e Triple H del 2002 e quella tra John Cena e CM Punk del 2011. I match, resi fedelmente grazie ad un sistema di obiettivi interno, sono accompagnati da cutscenes e filmati dell’epoca.
Ho lasciato per ultime le considerazioni sul gameplay perché penso sia il fattore che meno in assoluto va ad influire sul giudizio finale di un gioco del genere. WWE 2K15 non necessitava una giocabilità profonda per accontentare quella piccola fetta di mercato a cui è rivolto, gli bastava concentrarsi sul rinforzare l’eccellente lato contenutistico degli scorsi capitoli e in questo Yuke’s ha miseramente fallito.
Gli sviluppatori si appoggiano grossomodo alle fondamenta di gameplay dei precedenti episodi, appesantendole ulteriormente con due meccaniche atte a rendere le il ritmo di gioco più blando, cercando di restituire un inedito feeling simulativo. Il Chain Wrestling è il tentativo di implementare nel sistema di combattimento il classico scambio di prese tipico di inizio match: innescato da un QTE simile alla morra cinese, consiste nel ricercare un punto di pressione attraverso l’analogico destro, per passare ad un’altra chiave articolare prima che lo faccia il nostro avversario. A questo si va ad affiancare la gestione della stamina: una barra, posta sotto quella della salute, che andrà a svuotarsi ad ogni azione del giocatore, provocandone un sensibile rallentamento nei movimenti. Resta un titolo valido per passare qualche pomeriggio di multiplayer spensierato, nonostante non sia stato eliminato un sistema di counter tanto fondamentale quanto impreciso.