Neverending Nightmares è la nuova opera di Matt Gilgenbach, già autore dell’ottimo Retro/Grade (con cui questo nuovo gioco ha addirittura alcuni punti in comune, come avremo modo di notare), ed è un lavoro quanto mai delicato. È un lavoro fortissimo, che nasce come “messa in scena” videoludica dei disturbi ossessivo-compulsivi dell’autore stesso. Un gesto inquietante e straordinario, quello di Gilgenbach, che si getta letteralmente nelle mani del giocatore e rende addirittura “interattive” ossessioni, manie e paure personali, private, intime.
Neverending Nightmares è, di fatto, un gioco horror in cui il terrore scaturisce dalla struttura stessa dell’esperienza e dalle meccaniche ludiche, piuttosto che dagli orrori che si possono osservare lungo il percorso (pur presenti ed estremamente destabilizzanti). Il gioco porta infatti l’ossessione direttamente nelle dinamiche di gioco e nella costruzione dell’ambiente. Prima di trattare questi punti, è interessante ed utile vedere il punto di vista adottato: tutta l’opera è infatti in terza persona (e sulla difficoltà nel creare inquietudine utilizzando la terza persona ci sarebbe molto da dire: la soggettiva tende a dare insicurezza e instabilità, incertezza, si vedano Amnesia e Outlast, per esempio. La terza persona distanzia, in qualche modo allontana dall’oggetto del terrore, eppure permette una maggiore “lucidità”, che di fatto certifica l’inimmaginabile), lo scorrimento è rigorosamente orizzontale, e visivamente il gioco si presenta quasi completamente in bianco e nero, salvo pochi elementi colorati. Una scelta grafica sempre più utilizzata, negli ultimi tempi (basti pensare a giochi come MadWorld, Betrayer e The Cat Lady). Nel titolo di Gilgenbach, però, anche l’uso del colore è degno di nota: le tinte vengono utilizzate come diversivo per attirare lo sguardo su una certa area, per guidare gli occhi in zone in cui il pericolo imminente non può essere percepito. Straordinario l’uso delle ombre, rese come una sorta di nebbia che va a sovrapporsi all’immagine, coprendo porzioni di scenario e creando zone d’incertezza visiva.
Venendo alla struttura cui accennavamo, Neverending Nightmares chiarisce quasi subito il senso del titolo. L’elemento che regge tutta l’impalcatura del gioco è infatti essenzialmente uno: la ripetizione. La ripetizione di scenari, di sfondi e immagini, la ripetizione di intere parti di mondo che si susseguono una dopo l’altra. Neverending Nightmares è dunque la paura che l’ossessione si mostri nuovamente, sotto forma di un mobile ripetuto, di una stanza uguale in tutto e per tutto ad una precedente, il terrore scaturito dalla costrizione e dalla costruzione dello spazio. Se è vero che recentemente il videogioco ha iniziato a recuperare l’idea di “ambiente” (inteso come luogo da esplorare, da vivere e in cui vivere), il titolo di Infinitap Games porta questo concetto in un mondo bidimensionale (con una profondità “esplorabile”, un vuoto che si estende da parete a parete: uno spazio ristretto, una terza dimensione ridotta in cui cercare una via di fuga), costruendo il gioco in un continuo spostamento in avanti attraverso attese, momenti vuoti, pause, corse terrorizzanti e abissi visivi. Si crea così un gioco di sguardi, di punti di vista: si osserva in prima persona un orrore visualizzato in terza, come un sogno in cui si esce da sé, e si è in grado di vedere il proprio corpo a distanza. Si partecipa dell’orrore, un orrore delimitato dai confini dello schermo, che lasciano sempre intuire qualcosa oltre il campo del visibile (una “nuova” porta, un “nuovo” corridoio. Il mondo di gioco si mostra sempre parzialmente: avanzare di un passo significa vedere una porzione in più di livello davanti a sé, ma perderne una alle spalle) e, allo stesso tempo, si è lontani, distanti. Si prova l’inquietante sensazione di giocare in “seconda persona”, e ci si accorge che in realtà giocare ad un videogioco significa sempre interagire in seconda persona (si danno “ordini” che la macchina esegue, si crea un dialogo tra un soggetto “controllato” ed uno che “controlla”, e nel dialogo si crea dunque una nuova entità, non riassumibile né nella prima, né nella terza persona. Un interessante esperimento di seconda persona videoludica è, per esempio, il recente Curtain, di dreamfeel).
La struttura quasi musicale, comunque ritmica, del gioco è ciò che avvicina maggiormente quest’opera al già citato Retro/Grade, che mescolava sparatutto a scorrimento orizzontale (anche se “inverso”) e rhythm game. Qui la ripetizione (comunque uno dei fondamenti del linguaggio musicale) si traduce sul mondo attraversato, che fa perdere del tutto l’orientamento: un luogo così si trasforma in un altro, magari già visitato, una casa diviene un bosco, e un esterno un interno al risveglio da uno degli incubi dentro all’incubo, che è l’esistenza in sé. E qui entra in gioco uno degli elementi più stranianti dell’intera produzione: la voglia di proseguire. C’è una strana forza che spinge a procedere lungo corridoi apparentemente infiniti e strade che sembrano uguali: si ha la morbosa ossessione del “dopo”, il terrore eppure l’inerzia del passo incerto e affaticato. La paura nasce, infatti, anche dal corpo, dal corpo che ansima e il cui rumore va ad aggiungersi alla stratificazione di voci, di temi appena accennati e subito nascosti, di parole nette e distinte, impresse sui muri della mente con il sangue della voce.
E, ancora, la struttura musicale è chiaramente riscontrabile nel tessuto di rimandi e variazioni costruite attorno a situazioni “conosciute”: luoghi “familiari” si trasformano, alcuni dettagli cambiano di collocazione e stravolgono l’aspetto di stanze “note”. Si ha così un groviglio regolatissimo, un orrore razionale e matematico, un abisso ritmico sconvolgente, terrificante per una struttura che tende all’eterna (auto)riproduzione di sé. Reiterazione che arriva a dare senso anche alla “morte“, come parte di un incubo cui segue un risveglio in un nuovo incubo: anche la morte è parte del gioco.
Neverending Nightmares si presenta dunque come un’opera eccezionale, che lavora sull’interazione in relazione con lo sguardo, con la ripetizione e con il ritmo, un titolo dal comparto sonoro fuori parametro (con tanto di audio posizionale: si consiglia fortemente l’uso delle cuffie, per apprezzarlo al meglio) e dall’impatto visivo impressionante: l’animazione “tradizionale”, con linee di contorno nettissime e decise, non diminuisce la tensione, anzi amplifica le proprietà del gioco, con un mondo di bianchi nitidissimi che si “sporcano” e si perdono in mari di ombre. Un titolo dal level design straordinario, che riesce a tenere sempre alta la tensione grazie ad una struttura ritmica perfetta (un buon esempio è la corsa, da gestire con parsimonia per non affaticare troppo il protagonista, che altrimenti potrebbe rimanere senza fiato nelle situazioni più sgradevoli). Si tratta di un susseguirsi infernale di incubi che obbliga alla ricorsività, e che trasforma l’impulso naturale di giocare tendenzialmente all’infinito (proprietà ludica individuata anche da Enrico Ghezzi) nella concretizzazione, nella realizzazione dell’ossessione. Il giocare diviene in questo modo lo strumento per confrontarsi con ciò da cui sarebbe naturale fuggire, per vedere con i propri occhi ciò che (non) si vorrebbe vedere, per affrontare l’inaffrontabile. E la sfida diventa la presenza stessa nel mondo di gioco.