Pubblicato il 17/11/16 da Neko Polpo

WWE 2K17 – Vivere il mio sandbox

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Il wrestling è un media (è un media?) complicato. Tutte le volte che mi chiedono come mai io sia un appassionato marcio della disciplina, incontro sempre una certa difficoltà nel trovare una risposta efficace ai legittimi dubbi di chi, fortunatamente, non spreca il suo tempo a guardare uomini/donne in spandex picchiarsi tra di loro in incontri VERI ma predeterminati. L’insieme di personaggi carismatici, atleticità, intrighi bizzarri e interessanti meccaniche narrativo-logistiche (questioni troppo complicate per questa recensione, andiamo avanti, prego) mi impedisce di trovare quella caratteristica dominante in grado di descrivere al meglio l’essenza del pro wrestling all’americana. Uno spettacolo sfaccettato, che può attrarre per fattori profondamente diversi tra loro e che, conseguentemente, “crea” differenti etnie di fan, talmente eterogenee tra loro da spingere la community a categorizzarle con dei termini tecnici molto specifici. Ad esempio, se dovessi inquadrarmi secondo queste logiche, penso rientrerei nella categoria degli smark, ovvero quella tipologia di appassionato che riconosce la natura teatrale di questo sport-spettacolo ma che occasionalmente si ritrova a tifare per un determinato atleta “sopprimendo” ogni nozione di quello che succede dietro le quinte. Ma questo, come detto, non è l’approccio seguito da tutti i fan, abituati magari a godersi le puntate settimanali di Raw sospendendo totalmente la loro incredulità per meglio immergersi in questo mondo fantasy-sportivo.

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Il grande ritorno dei backstage brawl.

Ma allora come tradurre una forma di intrattenimento così contorta come il wrestling in un’altra, altrettanto complicata, come quella dei videogiochi? Ecco, questo è un vero problema. I giochi di wrestling hanno accompagnato il medium videoludico all’incirca da sempre – non so se esisteva il genere prima della crisi del 1983, ma insomma – e nella maggior parte dei casi si tratta di titoli che ruotano attorno alle regole di fruizione dei picchiaduro, seguendo dunque quella che può essere la prospettiva molto “reale” di un bambino che assiste a uno show televisivo: un combattimento tra due wrestler digitali è competizione vera, dove conta esclusivamente vincere e non bisogna assolutamente preoccuparsi di come far proseguire un determinato feud, intrattenendo il pubblico con colpi di scena o, comunque, con dei match molto bilanciati e incerti fino all’ultimo secondo. Anche Yuke’s, detentrice dei diritti WWE da circa una ventina d’anni, si è sempre allineata a questo modo di intendere i videogiochi di wrestling, arrivando (soprattutto nel periodo dei primi Smackdown VS Raw) a produrre dei picchiaduro Arcade caciaroni e decisamente divertenti, soprattutto per quei pochi fortunati possessori del Playstation Multitap, fonte di infinite partite in multiplayer. Ma poi qualcosa è cambiato: dopo qualche anno di difficoltà, tra passaggi di proprietari e di generazioni di console, la compagnia giapponese, ora sotto la bandiera a stelle e strisce di 2K, ha iniziato un percorso impegnativo atto a portarla, idealmente, a rendere il proprio prodotto adatto a tutti i tipi di palato, esaudendo annualmente i desideri più remoti dei fan con l’ennesima uscita del nuovo WWE 2K. Un’operazione tanto ambiziosa quanto rischiosa.

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Renee Young finalmente riconoscibile, a differenza dell’infelice modello di 2K16.

Parlando esplicitamente della giocabilità, o meglio del sistema di combattimento, la serie sta lentamente inseguendo un sistema in grado di riprodurre l’esatto incedere di un match di wrestling, acquistando una sorta di vena simulativa del tutto inedita per chi ha abbandonato il franchise al suo picco, una decina di anni fa. I combattimenti richiedono una partecipazione molto più attiva del giocatore, richiamato a badare costantemente a quick-time event, una barra della stamina che limita il button-mashing e soprattutto un sistema di contromosse che può risultare davvero punitivo se non si è in grado di maneggiarlo a dovere. Alla scorsa Gamescom ho avuto il piacere di colloquiare brevemente con Bryce Yang e, senza ricorrere a giri di parole, gli ho chiesto come questo cambiamento, in atto ormai da WWE ‘12, sia stato accolto negli anni dalla community, abituata storicamente a una giocabilità Arcade magari più arcaica ma, a mio parere, più efficace: nonostante la mia domanda esplicitamente critica, il brand director di 2K ha confermato la volontà del team di sviluppo di proporre un’esperienza WWE più credibile, e che le fondamenta di questa virata filosofica risiedono proprio nel rinnovato sistema di lotta, distante da quello “anacronistico” visto fino a qualche anno fa. E allora parliamo subito di questo argomento: confrontando WWE 2K17 con il suo predecessore è impossibile non notare i vari rimaneggiamenti attuati durante lo sviluppo, mirati soprattutto ad alleggerire alcuni passaggi di grappling davvero troppo macchinosi (come ad esempio il chain-wrestling, prima fase praticamente obbligatoria a inizio match, ora rara situazione innescabile solo da alcuni tipi specifici di moveset). Insomma in generale sono stati compiuti dei passi in avanti, ma una terribile svista sulla gestione della stamina rende tutti i miglioramenti effettuati del tutto vani, riuscendo a vanificare completamente l’efficacia “da picchiaduro” del titolo Yuke’s. Mi scuso per la mia prolissità ma devo entrare nello specifico: normalmente la barra della stamina scende progressivamente a ogni mossa eseguita, rallentando il combattimento e rendendolo ritmicamente più simile a uno visto in televisione (come detto poco sopra), una volta che questa verrà esaurita non sarà più possibile attaccare l’avversario, obbligandoci ad aspettare qualche secondo per far sì che si ricarichi automaticamente; purtroppo tutto ciò funziona a dovere salvo per gli attacchi a terra, liberamente spammabili verso l’avversario al tappeto e, poiché estremamente rapidi e quindi difficili da contrastare, capaci di concludere un incontro in men che non si dica. Nonostante i vari aggiornamenti arrivati nelle settimane successive all’uscita, WWE 2K17 soffre ancora di questo grave glitch, entrato a tutti gli effetti nel meta del gioco (a giudicare da quanti giocatori online lo stanno già utilizzando a loro favore). Purtroppo questa pecca influisce direttamente anche sulla fruizione delle molte modalità di gioco, poiché queste sono, in sostanza, tutte incentrate attorno agli scontri. Tra nuovi gimmick match e una carriera rinnovata (ma sempre abbastanza noiosa), si fa sentire la mancanza del 2K Showcase, con tutte le sue implicazioni nostalgico-enciclopediche che si erano dimostrate davvero interessanti negli anni passati.

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È stato implementato un nuovo sistema di promo, ancora in divenire un po’ come tutto quel cantiere che è la modalità carriera.

Se dovessi ragionare secondo un’ottica molto stringente, considerando WWE 2K17 come un semplice picchiaduro, potrei chiudere la recensione già in questo momento, affermando qualcosa del tipo: «2K non è riuscita a confezionare un sistema di lotta funzionante, rendendo 2K17 del tutto inapprocciabile» ma, come detto nell’introduzione, il fascino del wrestling risiede in molti fattori e quest’anno, evidentemente, qualcos’altro ha reclamato il posto da protagonista a discapito delle mere meccaniche di gameplay: la componente sandbox. Largamente elogiati negli anni, per varietà e profondità, gli editor in questa nuova nuova iterazione del franchise hanno acquistato un’importanza mai vista prima, rischiando forse di cambiare quello che sarà il percorso della serie da qui in avanti. Analogamente al fenomeno mod, capaci da sole di tenere a galla titoli non più recentissimi, qui è possibile personalizzare quasi completamente tutti gli elementi disponibili a schermo (ring, cinture, grafiche televisive, luci, arene) per non parlare poi delle superstar, creabili da zero (con un editor talmente completo da richiedere paradossalmente un certa abilità per essere sfruttato al 100%) oppure customizzabili per quel che riguarda attire, entrata, moveset e alleanze. Tra le molte novità introdotte quest’anno mi preme segnalare la possibilità di stabilire quanto olio per il corpo sarà presente sulla pelle del nostro lottatore, alterando così quella che sarà la sua lucentezza sotto i riflettori. Mi sono reso conto che più di metà delle mie 15 ore di gioco sono state investite nel maneggiare i vari strumenti di personalizzazione offerti da 2K, dimostratisi da soli capaci di creare intrattenimento. Attualmente l’aspetto creativo è quello che meglio rappresenta l’offerta di WWE 2K17, avvicinando l’esperienza di gioco a quello che poteva essere un pomeriggio d’infanzia passato con le action-figure dei wrestler. Nonostante manchi una struttura adeguata dove muovere le nostre creazioni è sempre bello mettere in scena incontri totalmente folli, magari tra Goku e un altro improbabile personaggio scaricato tra le già numerosissime creazioni della community, oppure dream match, opponendo superstar di periodi storici diversi tra loro. Le possibilità in questo senso sono davvero infinite e, se è questo il principale motivo per cui vi hanno sempre incuriosito questo genere di giochi, WWE 2K17 riesce ad essere il miglior episodio della serie sotto questo, insolito magari, punto di vista.

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Unto e bis-unto.

WWE 2K17 fallisce ancora la missione impossibile di proporsi come un gioco di wrestling capace di rappresentare efficacemente ogni minima sfaccettatura della disciplina: dimenticandosi colpevolmente tutto l’aspetto competitivo ed enciclopedico, fortunatamente riesce comunque a salvarsi grazie al lavoro compiuto negli anni sul versante più prettamente sandbox. Se gli editor fanno parte della vostra cultura da videogiocatore questo è un titolo da non mancare assolutamente, se invece siete alla ricerca di un picchiaduro raffinato, o per lo meno divertente, forse vi converrà aspettare l’anno prossimo, visto che si fa fatica a definire picchiaduro l’edizione di quest’anno. WWE 2K17 va capito, è un titolo per le minoranze delle minoranze.

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