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Resident Evil, 25 anni dopo
La saga lanciata da Capcom ormai un quarto di secolo fa è diventata una delle più fortunate in ambito videoludico tra molti alti e qualche basso. Per festeggiare, ho deciso di rigiocare Resident Evil, l’originale e non il remake, per vedere con gli occhi di oggi un titolo che all’epoca mi faceva cagare sotto (è vero, avevo nove anni, ma non è cambiato molto).
Alle orgini di Resident Evil
Nella prima metà degli anni Settanta Kiyoshi Kurosawa, studente di Kobe appassionato di cinema, pur di mettersi dietro la macchina da presa decide di riprendere l’unico soggetto che ha a disposizione in quel momento: se stesso. Inizia a girare filmati sulla sua vita da liceale finché si iscrive alla Rikko University di Tokyo per studiare appunto la settima arte. Nel periodo successivo alla laurea Kurosawa (che ha lo stesso cognome del più famoso Akira solo per caso) dirige molti B-Movie a basso costo, tra cui pellicole erotiche softcore e altre del genera Yakuza che escono direttamente per il mercato dell’home video. Nonostante una miriade di generi affrontati al ritmo di quasi un film l’anno (sono riuscito a contarne 45 in 48 anni di attività dal 1973 ad oggi), Kiyoshi viene ricordato soprattutto per il contributo dato al genere dell’horror giapponese, o J-Horror. Tra le pellicole da ascrivere alla categoria ce n’è una del 1989 di cui è sia regista che sceneggiatore: Sweet Home. Racconta la storia di una troupe televisiva che si addentra in una villa in mezzo alla foresta per recuperare le opere di un pittore scomparso trent’anni prima. Il problema è che si troveranno alla mercè della moglie del pittore, che dovrebbe essere morta ma non trova pace.

Il film (con una regia spigliata, una fotografia abile nel giocare con le ombre e una colonna sonora a volte tendente alla commedia) esce a gennaio e già a dicembre la Capcom ne ha realizzato una versione per Nintendo Famicom sotto la supervisione dello stesso Kurosawa. Sweet Home è un gioco di ruolo dalle dinamiche classiche: gli incontri coi nemici sono casuali e ognuno dei cinque personaggi ha statistiche e abilità proprie che salgono aumentando di livello. Le particolarità del gioco da tenere in considerazione sono però altre, come il finale multiplo: ben cinque opzioni a seconda di quanti personaggi si riesce a portare vivi fino alla fine. Oppure la necessità di gestire un invetario risicato, abbandonando e recuperando oggetti a seconda dell’enigma da risolvere. Una trovata gustosa per aumentare la tensione sono le dissolvenze al e dal nero che partono quando si entra in una nuova stanza.
Capcom fa tesoro dell’esperienza
È stato detto in lungo e in largo quanto Resident Evil sia in debito con Alone in the Dark, titolo cruciale per il survival horror, ma a ben vedere gli elementi fondamentali del gioco sono già tutti in Sweet Home: i morti che non rimangono tali, l’esplorazione e il backtracking necessari per accedere a zone del gioco altrimenti inesplorabili, enigmi da risolvere, l’inventario limitato da gestire con cautela, la villa isolata – grande topos dell’orrore da Horace Walpole a Sam Raimi. L’azienda di Osaka però prende dal titolo Infogrames un elemento che, combinato con quanto già aveva in casa, ha dato a Resident Evil un tocco in più: la telecamera fissa. Sono le inquadrature parziali degli ambienti angusti che danno al giocatore quel senso di claustrofobia e ansia del non sapere cosa c’è dietro l’angolo.

All’epoca altri titoli di primo livello, come ad esempio Tomb Raider (anche Lara quest’anno ha compiuto venticinque anni) avevano optato per la visuale in terza persona, quindi la telecamera fissa non è dettata da limiti tecnologici, ma una precisa scelta estetica. Con la terza persona sarebbe bastato fermarsi alla fine del corridoio per sbirciare e vedere cosa c’era, ma con la fissa questa possibilità a volte era preclusa al giocatore, mentre altre è stata sfruttata in senso contrario: dare un’idea ben chiara di cosa ci attendesse.

Da questa prospettiva la scelta di inserire la visuale in prima persona nei titoli a partire da Resident Evil 7: Biohazard la vedo come un tentativo, perfettamente riuscito, di ottenere lo stesso effetto che con i primi titoli si aveva con l’inquadratura fissa. Vi anticipo però che questa scelta ha generato alcune problematicità, prima tra tutte i frequenti stacchi per il cambio di inqudratura che frammentano l’azione.
Il gameplay di Resident Evil
È forse sotto questo punto di vista che il gioco presenta allo stesso tempo i suoi aspetti più affascinanti e controversi.
L’inventario con pochi slot – sei per Chris, otto per Jill – e la necessità di portarsi dietro chiavi e oggetti per risolvere enigmi – più un’arma, le munizioni e un oggetto curativo – davano una forte impronta strategica al gioco. A volte si era costretti a tornare indietro per rinunciare a qualcosa, magari un’erba o qualche pallottola, per prendere una chiave o una manovella in più, con il rischio però di affrontare i nemici senza munizioni sufficienti o senza la possibilità di curarsi.
La cosa che veramente non mi spiego, o che mi spiego solo in parte, è l’impossibilità di muoversi mentre si spara. Di nuovo, se guardiamo cosa succedeva in quegli anni, la cosa era totalmente fattibile – Lara Croft fa le capriole all’indietro imbracciando uzi, fucili e quant’altro – mentre i nostri Chris e Jill rimangono immobili.
Da una parte capisco che la cosa posa essere difficile da gestire con l’inquadratura fissa, ma la saga ha mantenuto questa caratteristica almeno fino a Resident Evil 5 e sinceramente non me ne spiego il motivo. Un altro piccolo handicap, come anticipavo derivato proprio dalla scelta della telecamera, è l’uso dei tasti direzionali. I tasti muovono il personaggio nella sua direzione relativa. Mi spiego: il tasto “destra” muoveva Chris e Jill verso la loro destra, ma se i personaggi guardavano verso la telecamera, i giocatori li vedevano andare a sinistra. E questo rimaneva – e rimane tutt’ora – un po’ ostico, anche se ovviamente non ha reso il titolo ingiocabile.
L’ultimo aspetto che vorrei prendere in considerazione sono le risorse presenti nel gioco e, a questo punto, vorrei sfatare un mito. Resident Evil era ricchissimo di munizioni ed erbe curative. In totale ho contato, nella modalità normale, per Jill: 300 pallottole per Beretta, 84 cartucce per fucile, 66 granate di tre tipi (esplosive, corrosive, infiammabili) e 24 colpi magnum. Per Chris i colpi a disposizione invece erano 345 per la Beretta, 126 per il fucile, 36 per la magnum. Entrambi trovavano 5 spray, 6 erbe rosse, 38 verdi e 12 blu.
Semmai c’erano delle belle sfide che il gioco ci metteva davanti: molte risorse erano nascoste, la maggior parte degli scontri evitabile (ma questo lo si capiva solo dopo un paio di run) e, non ultimo, il fatto che non ci fossero radar, indicatori di missione o diari a indicarci l’obiettivo o ricordarci dove avevamo visto cosa (ci ho messo credo mezz’ora a trovare l’ultima porta che si apriva con la chiave armatura).
Considerazioni finali

Il lavoro di Shinji Mikami uscì il 22 marzo 1996 sul mercato giapponese, il 30 marzo su quello nordamericano e il primo agosto in Europa, vendendo una ventina di milioni di copie – considerando nel conteggio anche il Director’s Cut e il remake per Game Cube. Rigiocarlo a venticinque anni di distanza si è rivelata una sfida non da poco, soprattutto perché ho deciso di affrontarlo alla vecchia maniera, cioé senza cercare soluzioni su internet e con il solo aiuto di un quaderno di appunti per segnarmi alcune cose – posizione delle porte, degli oggetti, etc.
Per scrivere questo articolo ho tentato quindi un approccio che definirei relativista: ho cioè tentato di giocarlo come fosse il 1996 e non il 2021. Per questo ho preferito paragonare Resident Evil a titoli coevi e confrontarlo con altri titoli della saga solo per avere un minimo di prospettiva.
Devo quindi ammettere di non essere d’accordo con chi definisce le sue meccaniche farraginose. Certo, sono datate, ma gli elementi del gioco, presi in una visione d’insieme e considerati nell’epoca in cui è stato pubblicato il prodotto, sono perfettamente coerenti tra loro e creano quell’atmosfera che ancora oggi Capcom certa di riproporre ai giocatori. E anzi, anche dopo venticinque anni Resident Evil rimane un titolo godibile e rigiocabile.