Pubblicato il 04/12/14 da Neko Polpo

Hard Time: tempi (da) duri

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MDickie è uno sviluppatore indipendente “underground” attivo da quasi quindici anni. Molti i giochi su cui ha lavorato, dal bellissimo The You Testament (con tanto di versione islamica, The Making of a Prophet) a Wresting Revolution, passando (in ordine strettamente non cronologico) per Wrecked, The MDickie Show, Booking Revolution e Pop Scene. E poi c’è Hard Time, nella sua duplice (re)incarnazione: quella 3D, pubblicata nel 2007 su computer, e quella “bidimensionale” (di cui ci occupiamo in questa sede), resa disponibile a fine 2013 per varie piattaforme, tra cui PC (sullo store di digital delivery Desura), Mac, Android e Ouya.

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The You Testament.

L’idea di fondo è quella di trasportare gli elementi principali delle produzioni di MDickie nel contesto di una prigione “severa” e in cui risulta difficile sopravvivere per tutto la durata della pena.
In estrema sintesi, siamo davanti a un simulatore di vita (carceraria, e vedremo in che modo l’idea della prigione è stata resa in termini videoludici), ibridato però con un sistema di combattimento preso di peso dai titoli a base di wrestling dell’autore stesso e con meccaniche legate alla “sopravvivenza” (si veda il succitato Wrecked). A proposito del passato di MDickie: tutti i “vecchi giochi” creati dallo sviluppatore inglese sono diventati gratuiti e “open source” (il codice di ogni opera è scaricabile e modificabile liberamente!).

Hard Time, all’apparenza, è un beat ‘em up 2.5D, in quanto il mondo di gioco è popolato da personaggi bidimensionali, che si muovono però in un ambiente esplorabile anche in profondità. La necessità di sopravvivere all’interno di un carcere di “minima sicurezza” costringe ad affrontare frequenti combattimenti con gli abitanti della prigione (siano essi “galeotti” o secondini). E qui entrano in gioco le meccaniche “survival” di cui si parlava in apertura: di fatto Hard Time è un “rogue-lite”, nel senso che la morte è definitiva. Se si viene sconfitti non ci sono possibilità di ritornare in gioco, e non importa quanti giorni di pena siano trascorsi (lo scorrimento del tempo è interessante: ogni secondo “reale” corrisponde a un minuto nel mondo di gioco, ma dormendo le ore si susseguono molto più velocemente…). Il “perma-death” costringe a creare un altro personaggio e a ricominciare da zero, con un nuovo capo d’imputazione (si va dalla violenza sugli animali alle accuse per aggressione o sfruttamento della prostituzione…) e una durata della punizione stabilita “proceduralmente”. I processi non si esauriscono nella fase iniziale: ogni volta che si commette un qualche tipo di reato (all’interno del carcere), si è esposti all’arresto e, in caso di cattura, ci si ritrova in tribunale. Perdere la causa significa veder aumentare i giorni di “tortura” assegnati dal giudice.

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Hard Time 3D.

La componente di simulazione fa il resto: i rapporti sociali, infatti, non sono meno importanti dei combattimenti e dell’allenamento fisico o mentale (ogni personaggio ha quattro parametri, che possono essere migliorati con esercizi “specifici”: intelligenza, forza, agilità e reputazione). In pratica, siamo davanti a un Animal Crossing (“in manette”) in cui risolvere i problemi dei “cittadini” (comprare/vendere oggetti, compiere piccole sub-quest che implicano la ricerca di determinati personaggi, ingaggiare battaglie mortali per vincere scommesse e, dunque, denaro…) con mezzi più o meno leciti. Soddisfare le richieste dei personaggi non giocanti è uno dei modi per aumentare la propria reputazione (ma anche comportarsi da “bulli” dà i suoi frutti. Non a caso Bully, ovvero Canis Canem Edit, sembra avere interessanti punti di contatto con il qui presente Hard Time). E aumentare la propria reputazione significa avere meno problemi con “guardie e ladri”.

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Hard Time 2D.

Particolarmente degno di nota è il sistema di combattimento, che pesca a piene mani dal wrestling: i controlli sono piuttosto facili e intuitivi, con pochi tasti deputati a gestire un ampio numero di mosse (un sistema semplice ed efficace, basato sulle combinazioni di tasti e direzioni, garantisce una certa varietà di azioni, senza dimenticare che le mosse del proprio “avatar” possono essere scelte al momento della creazione, con un editor essenziale e “flessibile”). Per le ragioni di cui sopra, impegnarsi in un combattimento è una decisione rischiosa e da valutare con attenzione, cercando di studiare la forza dell’opponente e preparandosi anche alla fuga, se necessario, possibilmente verso un letto (sicuro, e non minacciato da “nemici” vari ed eventuali) o in direzione della mensa, per riprendere fiato e per rifocillarsi. Crearsi inimicizie è comunque inevitabile, visto che una risposta negativa a una richiesta può portare fino a litigi violenti o a cali di reputazione (senza dimenticare che vincere i processi in tribunale espone il giocatore all’odio delle forze dell’ordine: la violenza della polizia è anche la centro dell’interessante puzzle game Police Brutality, sviluppato da Jason Rohrer).

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Conviene ora osservare il modo in cui la vita “prigioniera” è stata letta e proposta in chiave (video)ludica, a partire dalla struttura dell’ambiente, ovvero dall’architettura del mondo di gioco (e di “edilizia” carceraria si è occupato recentemente un altro titolo indipendente, ovvero Prison Architect, di Introversion Software).
La prigionia è innanzi tutto ravvisabile nella “ristrettezza” dello spazio che si ha la possibilità di abitare ed esplorare: le “stanze” sono poche, e la capacità di movimento risulta in qualche modo “castrata”, imprigionata tra le quattro mura del complesso (comprendente anche una biblioteca, una cappella e diverse altre aree tematiche) e il cortile recintato, che ricorda da vicino la gabbia di alcuni match del wrestling.
L’idea di impossibilità e impedimento è trasferita sul giocatore attraverso una continua vessazione (come la Vessazione musicale di ripetizioni e reiterazioni “obbligate” composta da Erik Satie), una costante oppressione (da parte dell’autorità) che, contemporaneamente, spinge a ribellarsi al potere degli uomini in divisa (sempre pronti a reprimere tutte i “crimini”, anche quelli più innocui, come dormire oltre l’orario stabilito dalla direzione del carcere).

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Le costrizioni ludiche che il gioco impone non si fermano qui: dalle dieci di sera alle sette del mattino, ad esempio, si è tenuti a recarsi nella propria cella per dormire, ma una volta entrati nella “stanza” le sbarre si chiudono, e non è possibile fare nulla, se non riposare (sul letto, a meno che il compagno di cella non decida di monopolizzarlo), facendo scorrere il tempo più velocemente, o camminare in cerchio, in un’estenuante attesa dell’ora (delle ore) di libertà (e viene subito in mente The Stanley Parable, con i suoi mille divieti e imperativi, con le sue costrizioni ineludibili. Non si gira forse in cerchio, nei panni del povero Stanley?).

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The Stanley Parable.

Ancora: si è “costretti” a subire anche quando la sanità mentale del personaggio scende a zero, poiché in questi momenti il controllo viene sottratto al giocatore, che è in qualche modo obbligato ad attendere e a osservare il proprio “alter ego” buttarsi a capofitto in battaglie disperate o in preghiere “senza” dio (bisognerebbe scrivere un articolo a parte sulla “visione” religiosa e filosofica di MDickie: è una visione sincretica, che mescola i pensieri appartenenti a “dottrine” differenti e li fa propri, ibridando il tutto con Bruce Lee).

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Esperienze personali: ho creato una barricata per resistere alle incursioni delle guardie, che interrompevano il mio sonno prolungato (avevo intenzione di dormire, per scontare la pena senza problemi… Ho potuto farlo solo uccidendo tutti i detenuti e i poliziotti dell’ala sud!)…

Non meno interessanti sono il comparto sonoro e quello grafico: per quanto riguarda il primo abbiamo un unico tema principale, una sorta di brano hip-hop lo-fi (con velature trip hop) che unisce un beat essenziale , “cupo” e “sinistro” con Three Little Birds di Bob Marley (per il testo) e, soprattutto, con il “main theme” della serie televisiva Oz (a cui è ispirato anche tutto il gioco).
La componente visiva è volutamente “scarna”, diretta, spigolosa e tagliente, ricca di meravigliose animazioni “tagliate con l’accetta” (bellissimo lo stacco che mette in evidenza il respiro dei personaggi, con un minimo spostamento verso l’alto/ingrandimento delle figure, che può essere notato lasciando fermo il proprio “eroe”). Una grafica, quella di Hard Time, che non si perde in fronzoli inutili e che va dritta al punto, senza rinunciare alla varietà (gli oggetti interattivi e “distruttibili” sono molti, giusto per fare un esempio).

Hard Time è la prigionia fatta videogioco. È un “training” imposto al giocatore, come quello a cui si sottoponevano gli attori del Living Theatre per The Brig, non a caso incentrato sul carcere. Ma Hard Time è una prigione in cui non c’è via di scampo, in cui fuggire significa ritornare al punto di partenza. Un carcere in cui anche il “fuori” non è altro che una parte della prigione, chiusa e perfetta perché completamente programmata. E oltre a ciò che è programmato non è possibile andare.

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NekoPolpo - Biografia

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