L’orologio segna le 3 di mattina, mi frugo gli occhi dopo un numero considerevole di ore a Dragon Age: The Veilguard, scuoto la testa, pensando che siamo lontani da Origins ma anche che non posso continuare a rimanere ancorato al passato e che quindi questo gioco va analizzato con occhi freschi, e che i ricordi scorrano via, come i titoli di coda.
Un seguito, forse?
Dragon Age: The Veilguard mi ha provocato sentimenti contrastanti, proprio per la natura quasi bipolare del titolo, un esempio? è il seguito diretto di Dragon Age: Inquisition, ma i collegamenti sono pochi, flebili e l’idea sembra quasi di voler cancellare tutto quello che è successo prima in una sorta di Soft reboot non ben specificato. L’incipit è classico, un salto di dieci anni dopo Dragon Age:Inquisition, con Solas nel ruolo di minaccia principale, un Varric in versione mentore e un protagonista nuovo di zecca, Rook, chiamato a fermare l’ennesima catastrofe in arrivo dal Velo, pronto a strappare il confine tra il nostro mondo e un inferno di demoni; ma se l’idea di un vasto mondo aperto e interconnesso suona come una promessa epica, il gameplay e la narrativa ci mettono poco a cadere in quel “mischione” che finisce per appesantire tutto l’impianto.
BioWare non risparmia nulla: parliamo di decine di mappe aperte, piene di indicatori, simboli e quest secondarie che sembrano progettate per occupare il giocatore per settimane, ma che in realtà scivolano spesso in un inutile sovraccarico. Le interazioni narrative oscillano tra il profondo e il macchiettistico, con comprimari che lasciano il segno ma antagonisti e personaggi secondari che appaiono sacrificati, relegati a ruoli blandi e poco incisivi; ed è un peccato, perché a tratti Dragon Age: The Veilguard sa davvero catturare, con missioni che emergono come gemme di scrittura, dialoghi brillanti e un forte senso di immersione. Ma ogni volta che il gioco sembra ingranare, ecco che arriva l’ennesimo momento morto, l’ennesima forzatura inclusiva inserita in modo goffo, e il senso di immersione svanisce in un battito di ciglia.
Tanto colore, poca sostanza
Il combat system vorrebbe essere quello di un GDR Action, ma si riduce all’utilizzo delle solite due mosse ripetute allo sfinimento, mentre abbattiamo mostri che non brillano di un intelligenza artificiale cosi credibile, rendendo cosi ogni scelta delle abilità quasi inutile; le abilità si limitano a tre per volta, gli ordini ai compagni sono essenziali e i cooldown spesso frustranti. Anche qui, BioWare punta al “tutto in uno” con un sistema che, pur avendo spunti validi, non brilla mai davvero.
Sul piano estetico, Dragon Age: The Veilguard sceglie una strada stilistica radicale: un cartoonesco saturo che richiama più World of Warcraft che l’universo di Dragon Age. È un’idea interessante, certo, ma che cozza con l’oscurità e la cupezza del mondo in rovina del Thedas, dando l’impressione di un titolo che vuole piacere a tutti ma finisce per non convincere nessuno. E tecnicamente la versione per PlayStation 5 conferma questo spaesamento, alternando buoni volti e animazioni facciali a problemi di frame rate e caricamenti che spezzano il ritmo.
E poi c’è il comparto audio. Hans Zimmer, il compositore tanto annunciato, purtroppo non lascia il segno: mancano quei temi indimenticabili che dovrebbero elevare ogni scontro, ogni momento epico. È come se tutto fosse lì per esserci, ma senza anima, senza quel fuoco che trasformi un buon gioco in un cult.
Con la morte nel cuore
In definitiva, Dragon Age: The Veilguard è una creatura mastodontica, un’opera quasi bulimica di contenuti, che tenta disperatamente di essere “tutto per tutti” ma finisce per perdere il senso di sé; un RPG che si sforza di accontentare ogni fan ma che proprio per questo rischia di deludere chiunque cerchi un’identità forte e chiara, abbandonando le sue radici per qualcosa che neanche a ciò che resta di Bioware sia ben chiaro, più orientato a non offendere nessuno piuttosto che ad essere un buon RPG, neanche il finale, che brilla di luce propria su tutto il resto riesce a convincermi che questo titolo possa essere un Dragon Age, se non avesse questo nome nessuno ne avrebbe parlato.
Addio Bioware, e grazie per tutto il pesce.
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