Trovarsi su un’isola deserta piena di rovine all’inizio inquieta un pò, ci fa stare in guardia: ma come, ci sono edifici abbandonati e non c’è anima viva? Dobbiamo aspettarci qualche mostruosità che spunta dall’ombra all’improvviso per ucciderci in qualche modo? Ma non abbiamo armi! E perchè invochiamo il nome di Esther? Siamo forse naufraghi o siamo sopravvissuti a un disastro scientifico conseguente agli esperimenti che si facevano sull’isola?
Il dubbio, all’inizio, è legittimo e in parte permane: Dear Esther è un gioco da interpretare e le ipotesi già avanzate sono tante. Ci avviciniamo alla casa del faro quatti quatti: prima sbirciamo dallo stipite della porta, da lontano, poi entriamo. C’è disordine e sporcizia, fogli, libri e calcinacci, alcune stoviglie e un bagno, la scala per salire al faro è crollata. É la casa di un normale guardiano del faro? Probabile. Usciamo, un pò delusi e molto confusi, dirigendoci alla spiaggia, sotto un’alta scogliera. Man mano che il gioco va avanti continuiamo i nostri monologhi e scopriamo particolari dell’isola che rafforzano il dubbio iniziale, lo confutano e aggiungono nuove ipotesi. L’attenzione ai particolari è fondamentale, come lo è ascoltare bene i monologhi per coglierne tutte le sfumature di significato.
Le barche abbandonate, il giaciglio nella grotta, le candele, le formule chimiche sparse sulle rocce e le pareti, il fatto che pronunciamo i nomi di due uomini e l’antenna radio che lampeggia in lontananza, inducono a pensare che sia l’ipotesi del naufragio che quella del centro scientifico siano fondate, ma nei monologhi si inizia a parlare di un incidente automobilistico. Stiamo semplicemente ricordando un fatto che appartiene al passato? Abbiamo avuto degli sfortunati compagni di naufragio, ormai morti? O siamo davvero gli unici sopravvissuti a un esperimento andato male? Intanto avanziamo nell’ambiente inospitale dell’isola – che ricorda tanto le zone centrali della Sardegna, rocciose e coperte di sterpaglie nei periodi di siccità – avendo sempre l’antenna radio come punto di riferimento.
Durante il cammino proveremo l’angosciante sensazione di non avere uno scopo, perchè il continuo sali-scendi ci porta dall’interno dell’isola alla costa lungo un percorso predefinito totalmente vuoto e ostile, cosa che risulta molto snervante, visto che l’isola è straripante di oggetti e punti ciechi irraggiungibili. Inoltre non vedremo mai il nostro corpo, come se fossimo eterei, e questo farà vacillare ulteriormente le poche ipotesi che ancora ci vagano in mente svogliate. Dunque dopo una serie di ascese e discese lungo sentieri posti soprattutto in bilico su precipizi, per poter procede dobbiamo entrare in una grotta in modo un po’ brutale. All’interno, ci muoveremo in un ambiente stranamente rassicurante, nonostante sia umido e fluorescente, forse perchè adoro le grotte. É già il tramonto: ne usciremo quando sarà ormai notte e la luna sarà alta e luminosa nel cielo.
Lì, alla luce della luna, capiremo qual è il significato dell’intero percorso.
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