B.U.T.T.O.N. (Brutally Unfair Tactics Totally OK Now) è un esperimento pubblicato nel 2011 dagli sviluppatori indipendenti Die Gute Fabrik (Copenaghen Game Collective), autori anche del recente Johann Sebastian Joust, che con il titolo qui preso in esame ha alcuni punti di contatto. Entrambi i giochi, infatti, sono party game fisici: la maggior parte del gameplay si sviluppa fuori dallo schermo, nel mondo “reale”.
B.U.T.T.O.N. ha regole semplicissime, “essenzializzate”: di fatto i giocatori sono chiamati a compiere determinate azioni fisiche, appunto, ad una certa distanza dallo schermo, per poi correre verso i controller opportunamente collegati e predisposti, al fine di rispondere correttamente alle richieste della “macchina”. Si tratta semplicemente di premere in maniere diverse un singolo tasto. Il grosso dell’azione ha luogo nello spazio fisico, nella stanza che diviene teatro di folli minigiochi, palcoscenico in cui la “macchina” riveste un ruolo centrale, costrittivo ed “autoritario”, ma in modo da lasciare completamente liberi i giocatori. Un’apparente aporia che avremo modo di spiegare meglio.
Una volta lontani dallo schermo, i giocatori ricevono un messaggio che spiega l’azione da compiere prima dell’inizio del minigioco (ma anche durante), e che costituisce, de facto, il minigioco stesso. Ballare, girare sul posto, saltare, addirittura spogliarsi di un indumento (se si sceglie di giocare alla versione per adulti). E qui viene il bello: la “mente virtuale” non opera (e non potrebbe nemmeno farlo, per ovvi motivi) alcun tipo di costrizione sul giocatore, che accetta le regole imposte dalla macchina proprio come condizione necessaria al divertimento, come parte integrante dell’esperienza ludica. La regola, la “difficoltà” da superare, spesso (e pure troppo) vista come una necessità per il medium, viene qui resa completamente innocua, non assume alcun ruolo restrittivo nei confronti di chi gioca, che viene invece lasciato libero di accettare o meno le leggi “imposte” dal mondo “finto” (sempre meno “finto”, sempre più reale, fisico, tangibile, fatto di sudore, di carne, di ossa e voci umane: il mondo virtuale come parte del mondo presente oltre il vetro, a cui si dedicano tempo ed attenzioni, e che di conseguenza finto non è. E che finto non è mai stato). La regola si fa più “fluida”, può essere più o meno presa in considerazione, e lascia spazio a vaste sacche di gameplay emergente, con regole inventate dai giocatori stessi e tattiche brutalmente sleali che diventano la norma (rubare i controller altrui, fare il solletico…).
Un parallelo interessante può essere quello con una realtà del passato non videoludico solo superficialmente slegata dal discorso che sto portando avanti: i “libri-game”. Si tratta(va) di giochi di ruolo cartacei sotto forma di libro, in cui al giocatore era data la possibilità di operare scelte tra diverse alternative fornite dal testo, facendosi carico delle conseguenze di ogni decisione. In realtà, e qui arriviamo al punto, il testo non opera (e, come sopra, non potrebbe nemmeno farlo, per ovvi motivi) alcuna “forzatura” su coloro che prendono parte all’esperienza: il giocatore si sottomette autonomamente, sceglie deliberatamente di sottostare a leggi date da uno strumento (poco importa, ora, se elettronico o meno), leggi che può infrangere, sostituire, cambiare e scambiare in qualsiasi momento, senza subire penalizzazioni. Una sorta di giocare anarchico, in cui la presenza della regola viene dal giocatore che al tempo stesso, però, si scontra (o meglio, si incontra) con la realtà apparentemente meno anarchica d tutte: auto-imporsi le regole che il gioco fornisce è sorprendentemente divertente, proprio perché si comprende la fragilità della legge e si mette in scena una fantastica commedia in cui si apprende il vincolo, si sente il giogo (il gioco) della costrizione, ma liberamente scelta e cercata. Si riscopre la possibilità di limitarsi e di inventare “giochi”, ponendosi confini labili, esposti a repentini e incostanti cambiamenti di idee. Si diventa, in maniera sottintesa, game designer, inventori di personalissimi e potenzialmente infiniti spazi ludici.
Si crea dunque un costante dialogo con il gioco, che si diverte a interagire con il giocatore in maniera semplicemente testuale: capita così di aprire gli occhi in un momento in cui questa azione era stata interdetta e di trovare una scritta che intima al “reo” di non barare. Magnifica presenza nell’assenza, presenza di una porzione di testo che, rispettando le “regole”, non potrebbe essere letta e che straordinariamente squarcia il velo dell’empiria: l’esistente è anche in ciò che l’occhio non può/non vuole vedere. L’esistente esiste anche se l’occhio non lo certifica. Porzioni di invisibile si mostrano all’occhio che bara, che utilizza tattiche scorrette, che pensa di aggirare i limiti della macchina e si scopre raggirato.
B.U.T.T.O.N. rappresenta dunque il gioco che non è creato, ma va creandosi. Un gioco che non è dato una volta per tutte, ma si costruisce nella relazione con il giocatore, elemento centrale del processo creativo stesso.