Pubblicato il 02/10/15 da Neko Polpo

Metal Gear Solid V – The Phantom Pain: V has come to

Sono stati in parecchi, di recente, gli amici che mi hanno chiesto un riassunto sommario di Metal Gear per poter apprezzare appieno l’ultimo capitolo della serie, il che mi ha fatto realizzare due cose: la prima è che ricordo i più inutili dettagli della saga meglio di quanto ricordi i contenuti di casa mia (il che tornerà estremamente utile quando avrò finito di costruire la mia villa a forma di Shadow Moses), la seconda è che il canone di Metal Gear è completamente fuori di testa.
Non posso negare di provare comunque un certo affetto per questo universo narrativo, nello stesso modo in cui un avido lettore di fumetti ama il canone di Spider-Man, nonostante gli schiaffi sui denti subiti dalla “saga dei cloni” e compagnia cantante.

Simba!
Simba!

Di schiaffi Metal Gear me ne ha dati pure tanti, mi fa sentire come se avessi un marito abusivo che non riesco a smettere di amare, perchè i piccoli piaceri che mi dona, di solito, valgono la perdita di un altro paio di incisivi.

Metal Gear Solid V – The Phantom Pain è l’ultimo capitolo della serie di action-stealth in terza persona creata da Hideo Kojima, un episodio che si è presentato alla riunione di famiglia qualche ora in anticipo e già ubriaco e, lasciate che ve lo dica, non sento i miei denti particolarmente solidi in questo momento.

Oh, ma sono troppo cattivo, lo ammetto. Forse stiamo iniziando con il piede sbagliato, ma vi prego di comprendermi, Metal Gear Solid V mi ha lasciato confuso ed indeciso come solo Sons of Liberty è riuscito a fare prima di lui. Mi ha posto un dubbio atroce a cui ancora non so dare risposta, da fan della saga e da amatore di videogiochi in cui gameplay e narrazione camminano dolcemente sulla spiaggia, mano nella mano. Parliamo di una saga che ha sempre fuso con saggezza trama e videogioco, divertendosi a sovvertire i suoi stessi clichè e fare l’occhiolino verso il mondo oltre lo schermo.

In una classica martellata sulla quarta parete, tipica della serie, la trama è riassumibile con The man who sold the world di David Bowie, ovviamente citata direttamente in-game.
“The man who sold the world” di David Bowie è una delle ispirazioni principali per la trama. Viene direttamente citata in-game tanto per dare una bella martellata alla quarta parete.

Okay, okay, la smetto di ballare attorno al problema ed arrivo al nocciolo della questione: Metal Gear Solid V, narrativamente, delude. Non perchè sia mal realizzato, al contrario, la qualità di scrittura e regia supera gli standard già stratosfericamente innalzati con il terzo capitolo, nel 2005. I personaggi sono tematicamente coerenti con se stessi e con la trama che recitano, i cui argomenti da trattare sono praticamente scolpiti nel granito.
Qual è il problema, quindi? Che di questo ben di dio ce n’è davvero poco. Anni ed anni di esperienza e lavoro per raggiungere un apice stilistico così affascinante, così pulito nelle riprese ed incisivo nei dialoghi, solo per lasciarci assetati, imploranti per una goccia in più.

Gran parte dei personaggi non ha neanche un arco narrativo, alcuni hanno perfino perso la loro stessa identità. Ocelot, ad esempio, nemico ricorrente della saga da Metal Gear Solid per PlayStation, si unisce alla causa di Big Boss, perdendo se stesso nel processo. Una volta dinamico ed affascinante, è stato ridotto ad una figura di cartone con la sua faccia appiccicata sopra, irriconoscibile se non avesse i revolver appesi alla cinta. Più che irriconoscibile, semplicemente blando. Raramente interagisce, a schermo, con qualcuno ed assieme a lui il resto del cast. Posso contare i dialoghi tra i protagonisti sulle dita di una mano e, per carità, sono i momenti migliori del gioco, ma il mio numero di appendici rimane comunque molto basso.

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Il cast di The Phantom Pain al completo, in posa trionfale. Se solo li avessimo visti in azione di più…

In generale si sente davvero forte l’odore di contenuti tagliati. Ho il sospetto che il progetto fosse diventato troppo dispendioso per Konami (già costretti a rilasciare un pezzettino di gioco in forma stand-alone pur di rientrare in un minimo di spese) ed il gioco sia stato lanciato sul palco, con un sonoro calcio nel sedere, parecchio prima che avesse finito di truccarsi. Sviluppare un nuovo motore da zero, soprattutto se è impressionante quanto il Fox Engine, deve aver rubato anni allo sviluppo, e l’aspetto narrativo è stato probabilmente spostato in secondo piano rispetto alla raffinazione del gameplay.

Quiet, quasi senza dire una parola è uno degli unici due personaggi con un vero arco narrativo in The Phantom Pain.
Quiet, quasi senza dire una parola, riesce ad avere un arco narrativo tutto suo. Peccato che oltre a lei ci riesca solo un altro personaggio.

Raffinato è la parola giusta, perchè non ho mai visto prima un action-stealth così solido. La mia gioventù l’ho passata con Thief ed Hitman, oltre che con la saga Konami, e se ho particolarmente amato Metal Gear Solid 3 è proprio per la sua deriva sandbox, con mappe ampie, strade multiple e tonnellate di gadget con cui tormentare le povere guardie in modi sempre più stupidi. The Phantom Pain riesce nell’incredibile impresa di essere un stealth sandbox, open world e meccanicamente perfetto, spogliato dalla legnosità dei controlli, tipica della serie, ma ancora riconoscibile come un Metal Gear. Tutti i tratti distintivi della saga sono presenti, ma reinventati per uno stile di gioco ancora più aperto che in passato.

Da Peace Walker, ad esempio, riprende la meccanica di gestione della base, assegnazione del personale ai settori più indicati, ricerca di nuove tecnologie e costruzione di nuove strutture, ma tutti questi aspetti sono stati ampliati e semplificati nel modo corretto. Ad esempio, è possibile lasciare al gioco il compito di ordinare i soldatini nelle scatole corrette, con la sola pressione di un tasto, in modo da non restare affogati nei menù per ore, ma lascia liberi di tuffarsi nel micro-managing selvaggio per ottimizzare al massimo la nostra armata. Anche lo sviluppo di nuove armi e gadget è enormemente ampliato, con multiple configurazioni ed alberi di evoluzione, ulteriormente personalizzabili nei minimi dettagli tramite un menù apposito.
Perfino la classica scatolona, iconica in Metal Gear, ritorna in campo, rinnovata per la nuova generazione con numerose abilità, come il poter assumere posizioni diverse o appiccicarci sopra poster di soldati (per mimetizzarsi) e donnine nude (per attirare i nemici più sfigati).

Huey Emmerich è un altro personaggio di ritorno da Peace Walker.
Huey Emmerich è un altro personaggio di ritorno da Peace Walker.

Il motore stealth che muove il gameplay è granitico: per la prima volta, in un Metal Gear, luci ed ombre impattano la nostra abilità di mimetizzazione, portando a stili di gioco completamente diversi tra i vari orari della giornata. Il sole ruota in tempo reale, non è raro iniziare una missione a mezzanotte e concluderla il pomeriggio del giorno dopo, con tutte le variazioni dinamiche di conseguenza. I nemici, ad esempio, hanno i turni di ronda ed è più che possibile scivolare non visti tra i buchi che lasciano al cambio della guardia. Se pensate che basti scegliere di svolgere ogni missione di notte per vincere facile, però, vi toccherà ricredervi in fretta: il vantaggio del buio è innegabile ed alcune guardie potrebbero anche scroccare un pisolino sul lavoro, ma tireranno fuori le torce, accenderanno i fari segnalatori e, se particolarmente bastardi, si infileranno anche gli occhialetti ad infrarossi, che vi faranno brillare al buio come un albero di natale.

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Una nuova meccanica di The Phantom Pain sono i compagni che Big Boss può portarsi dietro in missione. Quel cucciolone peloso di D-Dog è in grado di segnalare automaticamente tutti i nemici attorno a noi.

“Organico” è la parola chiave di Metal Gear Solid V: ogni missione si limita a buttarvi di faccia nel terreno, puntare il dito verso quello che va rubato/distrutto/ucciso e lasciarvi mettere a punto la strategia da soli. Salire su una collina, tirare fuori il binocolo e studiare il percorso che porti a meno proiettili nello stomaco, passare inosservati a due millimetri da una guardia che, potete giurarci, vi aveva praticamente visto, mentre trattenete il fiato così a lungo da diventare color ciano, è esaltante, immersivo e tesissimo. La quantità di gadget a nostra disposizione è spropositata, senza essere totalmente sbilanciata. Non ci si può affidare solo alla pistola a dardi tranquillanti (in pochi colpi il silenziatore si rompe, tocca dosarne bene l’uso), così come non possiamo lanciare infinite granate fumogene. Una volta in campo tocca arrangiarsi con ciò che ci siamo portati dietro ed essere creativi. Il punto più alto sono le missioni con obiettivi dinamici, come intercettare convogli in movimento o eliminare determinati bersagli prima che si spostino in zone più trafficate.
Avete presente quei film d’azione in cui Sylvester Stallone o Dolph Lundgren piantano delle cariche di C4 prima di infiltrare la base, ma vengono beccati più tardi? Gli urlano di arrendersi e loro alzano le mani lentamente, telecomando in mano, premono un pulsante e salta tutto in aria, permettendogli di scappare nel parapiglia. Ecco, questo è il tipo di videogioco in cui una strategia del genere è totalmente legittima.

Metal Gear Solid V sfrutta molto bene la sua natura open-world, nonostante le missioni principali ci confinino in perimetri ben definiti. Le sezioni di mappa a nostra disposizione contengono sempre numerose basi ed elementi in movimento tra esse, soldati in marcia, veicoli di ronda, prigionieri spostati da un campo all’altro ed altro ancora, con cui siamo liberi di interferire o meno.

L'elicottero è l'hub da cui accedere a tutte le missioni, pronto a trasportarci dritti nell'area dell'operazione.
L’elicottero è l’hub da cui accedere a tutte le missioni, pronto a trasportarci dritti nell’area dell’operazione. Il faccione sofferente di Big Boss mi è rimasto ormai stampato nel cervello.

Un’altra meccanica di ritorno da Peace Walker è l’estrazione via Fulton, ovvero legare un grosso, grasso pallone aerostatico ad un poveraccio e lanciarlo nel cielo, dove verrà raccattato da un aereo di passaggio e trattato per la sua inevitabile sindrome da stress post-traumatico. Fultonare via i soldatini nemici è allo stesso tempo il modo principale per popolare la nostra armata ed un enorme incentivo a ficcare il naso anche nelle basi in cui non abbiamo nulla da fare al momento. La missione richiede di distruggere dei carri armati in movimento da A a B? Oh cavolo, ho appena trovato un paio di soldati con ottime statistiche in una postazione di guardia, la missione può aspettare. Tanto quei mostri di metallo camminano piano.
L’effetto secondario di tutto ciò è spingere organicamente lontani dal tuffarsi in battaglia armati fino ai denti e deviare verso uno stile di gioco non-letale e di alto livello. In fondo i cadaveri non sono buone reclute, no?

Mother Base è la base del nostro fedele esercito, i Diamond Dogs. Crescerà man mano che ordineremo la costruzione di piattaforme aggiuntive.
Mother Base è la base del nostro fedele esercito, i Diamond Dogs. Crescerà man mano che ordineremo la costruzione di piattaforme aggiuntive.

In queste 1500 parole avete letto tutto quello che amo e che disprezzo di Metal Gear Solid V, il che ci riporta all’argomento iniziale, il dubbio che mi ha fatto sorgere: è possibile considerare un gioco un capolavoro, un dieci perfetto, un innalzamento dello standard, quando tra gameplay e narrazione riesce ad essere davvero soddisfacente solo nel primo dei due campi?
Sono colpevole, per così dire, di aver apprezzato enormemente giochi che soffrivano del problema opposto: non fatemi neanche iniziare a parlare di Deadly Premonition e The Witcher, potrei decantarne le lodi per ore, della loro immersività, profonda caratterizzazione ed altri aspetti legati alla trama, sebbene sia ben cosciente che si giocano con la fluidità di un fiume di mattoni.

Ora arriva Metal Gear Solid V a pormi il quesito opposto e francamente non so come rispondere.
Sono stato vittima dell’hype pre-release, aspettandomi il canto del cigno della serie e tento disperatamente di non lasciar parlare questa parte di me, non sarebbe onesto.
Certo, il finale non aiuta, ultimo sonoro manrovescio che ha fatto traballare anche i pochi molari che mi sono rimasti. Non posso, né voglio, rivelarlo in questa sede, ma la sensazione di vuoto che mi ha lasciato sono libero di esprimerla. È un ennesimo ceffone di Kojima, che fa un male dimenticato dai tempi del finale di Metal Gear Solid 2. Riscrive parte del canone della saga e chiude perfettamente il cerchio, riportandoci dritti al primissimo capitolo per l’home computer MSX2. Lo apprezzo artisticamente, davvero, ma resta il fatto che per colpa sua dovrò mangiare solo brodo per un mese.

Quindi, pollice su o giù per Metal Gear Solid V – The Phantom Pain? Mentre internalizzo la questione, lascerò che sia il gameplay a parlare. Sì, il capitolo finale della saga Konami merita assolutamente di essere giocato da tutti i fan dello stealth e potrebbe addirittura finire per innalzare gli standard del genere. Questo nonostante i tagli pesanti che il gioco ha palesemente subito. Quello dei moncherini è solo un dolore fantasma, ma fa male davvero.

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NekoPolpo - Biografia

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