Questa è la storia di un uomo chiamato Stanley.
Stanley lavora per una compagnia in un grosso edificio in cui era l’impiegato numero 427.
Il lavoro dell’impiegato numero 427 era semplice: sedeva alla sua scrivania nella stanza 427 e premeva pulsanti su una tastiera.
Gli ordini gli arrivavano attraverso il monitor sulla scrivania, dicendogli quali pulsanti premere, quanto a lungo premerli e in quale ordine.
È ciò che l’impiegato 427 faceva ogni giorno di ogni mese di ogni anno, e anche se gli altri l’avessero considerato straziante, Stanley si gustava ogni momento in cui l’ordine arrivava, come se fosse fatto esattamente per questo lavoro.
E Stanley era felice.
E un giorno successe qualcosa di davvero peculiare.
Qualcosa che avrebbe potuto cambiare Stanley per sempre; qualcosa che lui non avrebbe mai dimenticato…
Tutto questo viene raccontato dalla calda voce suadente di un uomo. Ed è l’inizio di un delirio. Spesso in The Stanley Parable sfugge il senso di ciò che succede e qualsiasi strada prenderemo non andremo da nessuna parte.
All’inizio sembrerà che le cose siano orchestrate in modo da farci raggiungere uno scopo concreto attraverso una serie di azioni concatenate, e sembrerà che quel che il narratore racconta sia il giusto e normale svolgimento della storia. In realtà il narratore si atteggia a scrittore con la crisi da pagina bianca: a volte sarà lui a decidere le vostre azioni, altre si limiterà a descriverle, sinché si arriva a un capolinea oltre il quale non si può andare. In occasione dei capolinea si può restare basiti dalla confusione che generiamo nel narratore (che prenderà a sfogliare documenti e borbottare tra sé prima di ributtarvi in un altro folle reset) o dal modo brusco e scocciato in cui ci rimanda all’inizio del Gioco.
I finali possibili sono tanti, basta saper osare. Ce n’è uno in particolare che mi ha fatto ridere e stimare il povero narratore, ed è un vero peccato che non gli si possa offrire un caffè (come se fosse un amico o una persona stimata) per tutte le volte in cui riesce a sorprenderci; altri due mi hanno fatto davvero tanta tenerezza e un po’ di amarezza, perché il narratore ci prega (PREGA, sacrilegio!) di restare con lui.
Dopo aver raggiunto questi finali particolari mi sono concentrata su di lui, sul nostro caro e nevrotico Narratore. È buffo il modo in cui tenta in tutti i modi di sminuirci e umiliarci quando tentiamo di fare delle scelte, salvo rivelarsi poi debole e vulnerabile come se noi avessimo più consapevolezza e controllo di lui. È un Gioco strano, gerarchico: Stanley è il nostro avatar, noi siamo la pedina del Narratore, e lui è il burattino del Gioco. E il Gioco? È un immensa presa in giro di cui tutti e tre siamo vittime. Noi, però, possiamo scegliere di spegnerlo, loro ne fanno parte, sono suoi prigionieri.
Ho sviluppato un’insana solidarietà nei confronti del Narratore (vi chiederete di Stanley: non so come pormi nei suoi confronti, è solo un fantoccio) e – un po’ per la smania di aprire TUTTE le maledette porte, un po’ per soddisfare il suo desiderio di avere qualcuno a cui badare – The Stanley Parable è diventato una droga.
Non so come spiegarmi questa simbiosi così contraddittoria, né so come nasconderla. Penso sia ciò a cui ci spinge il Gioco, una sorta di dispettoso acchiapparello senza altro scopo che quello di farci sentire inetti davanti ad esso. Non è piacevole, però è intrigante.
Giocatelo responsabilmente.
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- Gone Home
- The Inner World
- To The Moon
- Little Inferno
- Ru-Pam
- Dear Esther
- Superbrothers: Sword & Sworcery EP
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