Pubblicato il 13/07/14 da Neko Polpo

Dreamcast e Visual Memory: spunti di game design

È bene chiarire subito il senso di un articolo incentrato sulle Visual Memory, ovvero le “memory card” del Dreamcast: l’idea è quella di ricordare, ancora una volta, questa meravigliosa console, certo, ma non solo. Vorrei anche “indagare” sull’apporto dato da una “periferica” (la Visual Memory, appunto) al gameplay propriamente inteso di alcuni titoli che l’hanno sfruttata. Di fatto, in alcune occasioni e senza dare molto nell’occhio, le “memorie” del Dreamcast hanno svolto funzioni attive (e non solamente di “registrazione” passiva) nell’economia di gioco, proponendo interessanti e forse poco evidenziati spunti di game design. Bisogna inoltre ricordare che l’idea alla base delle Visual Memory è stata poi ripresa ed utilizzata anche da Sony per PlayStation con il progetto PocketStation (1999): una memoria ad infrarossi capace di salvare i dati e interagire in vario modo con i software. Ma, in conclusione, arriveremo a trovare somiglianze ancora più sorprendenti ed azzardate. Sono quattro i titoli per Dreamcast che avremo modo di tirare in causa:

Il primo è sicuramente il più conosciuto: Shenmue. In Shenmue (sia nel primo che nel secondo capitolo della serie, rispettivamente del 2000 e del 2001) la Visual Memory sembrerebbe avere un ruolo passivo, come si accennava in apertura, meramente “mnemonico” in funzione dei dati di salvataggio. In alcuni, sparuti momenti, però, la situazione cambia e la memoria si trasforma in una sorta di allarme sonoro per il giocatore, un suggerimento acustico (ma anche visivo, a dire il vero) in una data situazione di gioco: sono un esempio, senza voler svelare dettagli a chi ancora non avesse giocato i due capitoli di questa straordinaria serie (ancora incompleta, come ormai noto), le sessioni di allenamento per l’apprendimento di nuove mosse. In questi casi la Visual Memory emette un suono in un preciso momento per segnalare al giocatore la tempistica esatta nell’esecuzione di una certa mossa, mentre lo schermo della memory segnala l’ordine in cui premere i pulsanti. Questo è solo l’esempio più “elementare” dell’utilizzo “alternativo” delle Visual Memory.

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Le mosse a disposizione di Ryo Hazuki in Shemue.

Il secondo gioco è Seaman (1999), di Yoot Saito (la mente dietro capolavori come Odama, Aero Porter e Seaman 2). In Seaman il giocatore deve allevare un pesce dal volto umano, interagendo con lui vocalmente, grazie al microfono da inserire nel secondo slot per le Visual Memory nel pad del Dreamcast. In questo simulatore di relazione ittica la Visual Memory si trasforma in una sorta di protesi del gioco, permettendo di interagire con il curioso animale anche a console spenta, sfruttando la croce direzionale e i tasti della memory (senza considerare la possibilità di scambiare oggetti con un altro allevatore collegando semplicemente le due “schede”). Impossibile non pensare ai Tamagotchi di Aki Maita (1996). In realtà, in area Dreamcast, un espediente del genere era già stato sperimentato con Sonic Adventure (nel “minigioco” incentrato sulla crescita e la relazione con un piccolo Chao), un anno prima di Seaman.

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Un vero “uomo di mare”…

Il terzo titolo in esame è Real Sound: Kaze no Regret di Kenji Eno, un gioco pensato per i non vedenti (ho avuto modo di citare molte volte questo titolo: qui un mio articolo sulla figura di Eno e, in particolare, su Real Sound e You, Me and the Cubes). In questo riuscitissimo esperimento, praticamente inservibile per un pubblico occidentale che non mastichi l’idioma nipponico alla perfezione (vista la mancata pubblicazione americana e/o europea), ma comunque eccezionale, il giocatore segue la narrazione di una vicenda sospesa tra infanzia, ricordo, nostalgia e dolore, interagendo in alcuni precisi momenti per effettuare decisioni in grado di cambiare il corso della storia. L’uso della Visual Memory è particolarmente degno di nota nell’impiego per i non vedenti delle caratteristiche sonore della “periferica”. In pratica il giocatore cieco sa sempre quando effettuare le proprie scelte grazie ad un utile segnale emesso dalla “memoria”. Un uso che potrebbe sembrare limitato e limitante delle possibilità di uno schermo inserito nel controller (e comincia a delinearsi quella somiglianza con esperimenti recenti di cui si parlava in apertura…), ma che si rivela funzionale alle necessità di un titolo nato per i non vedenti.

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Real Sound: Kaze no Regret e il suo fantastico packaging, con tanto di istruzioni in braille e semi da piantare in un vaso! Del resto Kenji Eno aveva già sperimentato in questo senso: nella confezione di Short Warp (Panasonic 3DO) era compreso un preservativo.

Il quarto e ultimo titolo è un party game che ha subito (in modo ingiusto, probabilmente) il costante confronto con il “re” dei party game, Mario Party. Il gioco in questione è Sonic Shuffle (2000), curiosa incursione di Sonic e compagnia nel mondo delle feste videoludiche. Si diceva ingiustamente considerato un clone poco ispirato delle scampagnate festaiole di Mario e soci, perché le differenze, in realtà, ci sono eccome. Innanzitutto lo spostamento sulle caselle che costituiscono i vari tabelloni, determinato non da un tiro di dadi ma dall’uso (anche strategico!) delle carte a disposizione (ogni “membro” del party poteva “pescare” una carta o tra quelle del proprio mazzo o tra quelle degli altri giocatori). Senza contare, poi, che i minigiochi non erano tassativamente inseriti alla fine di ogni turno, ma disposti sul tabellone come “eventi” oppure la presenza di combattimenti a suon di carte con i nemici, custodi dei Chaos Emerald (i corrispondenti delle Stelle mariesche, per intenderci). Inutile negare le somiglianze (pur presenti e facilmente visibili anche durante la prima partita: gli anelli al posto delle monete, etc…) con le feste del Regno dei Funghi, ma non è corretto parlare di mero clone senza arte né parte. E qui entrano in gioco le Visual Memory, inserite nello slot di ogni controller: le versatili “periferiche” diventavano schermi “privati” di ogni giocatore, che poteva così nascondere le proprie carte alla vista deli altri partecipanti. Questo semplice meccanismo permetteva di aggiungere un pizzico di strategia e casualità al tutto.

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Un esempio di combattimento in Sonic Shuffle: il numero della carta sulla testa del nemico indica la sua “resistenza”. Per sconfiggerlo è necessario pescare una carta dal valore più alto.

Come suggerivo in apertura, vorrei ora fare un azzardato accostamento con il presente videoludico, accostamento che, proprio in quanto “azzardato”, non ha alcuna pretesa di verità, ma vorrebbe stimolare la curiosità e la riflessione degli “interlocutori”. L’idea di uno schermo “incastonato” nel controller di gioco che diviene parte attiva del gameplay potrebbe sembrare una “aggiunta” di poco conto, ma cercando di non banalizzare la questione si potrebbe giungere a risultati inaspettati: chi impedisce di pensare al “gameplay asimmetrico” e alle possibilità che uno schermo fuori dallo schermo (e che mostri immagini differenti da quello “tradizionale”) può garantire? Si tratta, di fatto, di un ampliamento delle possibilità videoludiche che non mi sembra poi così distante dall’idea alla base di Wii U, giusto per dirne una. Questo nonostante la mancanza, ovviamente, di un touch screen.
Ecco, dunque: un’innovazione passata mezza inosservata, o comunque data per scontato e che potrebbe ancora oggi essere la base per nuove esperienze ed esperimenti nel campo videoludico. Del resto non è certo una novità il fatto che alcuni team indipendenti continuino a sviluppare giochi per questa storica console (solo per citarne alcuni: Ghost Blade nel 2014; DUX nel 2009; Gunlord, uscito nel 2012 e forse in arrivo anche su Wii U e 3DS -sic!-; Redux: Dark Matters nel 2014), quindi nulla vieta sperimentazioni azzardate anche nell’uso di una “semplice” e “scontata” Visual Memory…

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