Pubblicato il 11/08/14 da Neko Polpo

Dante’s Inferno (1986, Commodore 64)

Dante’s Inferno, quello del 1986 per Commodore 64 (Denton Designs) e non l’omonimo hack ‘n’ slash del 2010 (Visceral Games), è un’avventura con elementi “action” e puzzle, ambientata nel labirintico Inferno dantesco. Un titolo bistrattato dalla critica di settore e dai giocatori. Un gioco che è ora di riabilitare e riconsiderare.

Protagonista dell’avventura è il poeta fiorentino stesso, che si trova a (ri)percorrere i gironi infernali, descritti nella prima Cantica. Per sopravvivere alle creature demoniache, Dante deve fare ricorso agli oggetti che trova disseminati lungo il tragitto, quali crocifissi (che eliminano tutti i nemici presenti sullo schermo), corde e sacchi di monete (da offrire a Caronte per attraversare l’Acheronte), giusto per fare alcuni esempi. Il tutto ambientato in un labirinto in cui scoprire passo dopo passo, partita dopo partita, come procedere verso la meta “finale” del viaggio.

E qui si giunge a un punto centrale della disamina, ovvero la forte componente da “trial and error” di Dante’s Inferno. Di fatto il gioco può essere portato a termine in 5-6 minuti, ma prima bisogna conoscerne ogni sfumatura, si è costretti ad imparare a memoria la struttura di ogni singolo girone, e non è possibile commettere errori. Un colpo (o una semplice svista del giocatore) e tutto ricomincia dall’inizio.

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Anche restare fermi e aspettare la “fine” è un modo di affrontare l’Inferno…

L’Inferno che ospita le infinite peregrinazioni di Dante è un Inferno ciclico, ripetuto eppure razionale, un luogo di perdizione e dannazione in cui i gironi, i “livelli”, non hanno né una fine né un inizio, perché camminare verso sinistra (o verso destra) significa ritornare al punto di partenza, in un tormento infinito che pare non concludersi mai. La fine, il disastro e la dannazione eterna sono sempre presenti, sono costantemente sottesi alla struttura di gioco e in particolare agli ambienti. La dannazione è presente in ogni passo, come assenza dei confini tradizionali imposti e posti a barriera, a salvaguardia di un pericoloso limite, che una volta superato e cancellato diventa l’Inferno numerico e prettamente matematico, l’Inferno Videoludico. La sofferenza perpetua è accessibile in ogni istante, semplicemente come punizione per una “curiositas” che si è spinta oltre, che non ha seguito il precetto “non ti curar di loro ma guarda e passa”, che ha dimenticato l’obiettivo della propria discesa, simulata come discesa verso il fondo dello schermo. Un Inferno piatto, bidimensionale ma, con un colpo di genio, pure sferico e in sé conchiuso, e dunque infinito, soggetto alla demoniaca ripetizione di sé.

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Minosse, che con la sua coda decide in quale girone relegare ogni dannato…

E neppure la morte è un’ancora di salvezza: non può sfuggire al circolo vizioso delle ossessive reiterazioni. Anche la morte, se non interviene il giocatore a “interromperla”, è costante, rappresentata da animazioni che continuano ad esistere e riaffermarsi in tutta la loro negatività (animazioni che distruggono l’anima: animazione come segno vitale che toglie la vita e continua senza senso a ripetere, di nuovo, la propria struttura ciclica. L’Inferno non esiste in funzione Dante, e una volta eliminato non si ferma, ma continua la propria azione, destituita di significato). Solo quando (e solo se) il giocatore decide di ricominciare, Dante ritorna al punto di partenza. Anche la (non)morte è condannata alla propria eternità.

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VER THE END IS NEVER THE END IS NEVER THE END IS NEVER THE END IS NEVER THE END IS NEVER THE

Al mare di ripetizioni ludiche si aggiunge il linguaggio ripetitivo per eccellenza: la musica. Conviene qui recuperare la nozione di rondò. Stando all’Enciclopedia Treccani (Cerbero, tre belve feroci nel corpo deforme di un unico grande mostro, qui scomposto e decomposto in fiere minori, in veltri neri come la notte, pure ombre), il rondò è una “composizione e forma compositiva strumentale e anche vocale caratterizzata dal periodico ritorno di un’idea principale, in sé conclusa, o anche di uno o più periodi secondari, lungo l’intero svolgimento della composizione”. “Il periodico ritorno di un’idea principale”, dunque la ripetizione di sé, qui portata ai massimi livelli, con pochi temi costituiti da cascate di note e loop infiniti in cui non si percepisce il minimo stacco. La composizione è un fiume di note che non ha mai fine (ed è, di fatto, l’Ouverture in si minore -BWV 831- di Bach). Uno Stige musicale tripartita (tre, numero centrale), portatore del senso dell’opera tutta. Un inferno in tre canali audio.

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Non c’è via di fuga dalla dannazione.

Utilizzare i trucchi sembrerebbe una soluzione facile e veloce per evitare di cadere nell’abisso infernale, una soluzione per uscirne. E invece il gioco pare tener conto anche di questa eventualità, perché anche in spazi in cui non sarebbe possibile dirigersi verso destra o sinistra continuativamente, come si accennava in precedenza, spunta la medesima struttura circolare dei gironi, come se al nero mondo dei demoni non vi fosse via di scampo. E la conferma giunge anche una volta raggiunto il limite finale, l’ultima tappa del percorso, il punto in cui è possibile ritornare in superficie “a riveder le stelle”. Anche in quel momento l’Inferno è sempre sotteso: sembrerebbe tutto finito, la schermata finale sembra per sempre, l’orrore pare completamente dimenticato. Ma il fondo dello schermo richiama e di nuovo si è schiacciati dagli ingranaggi di una macchina che non ammette alternative. Un Inferno meccanico in cui non esiste salvezza, in nessun modo. Dante, nel Paradiso, arrivato al cospetto di Dio, poteva tornare all’umanità e al mondo terreno. Qui si opera un paradossale rovesciamento. Non si tratta più dell’equivalenza tra l’incontro con Dio e l’incontro, nuovo e rigenerato, con l’umanità del mondo fisico, ma del rapporto indelebile tra il mondo fisico e l’Inferno, un abisso sempre presente e accessibile, sotteso all’apparente normalità di una schermata “finale”. Il verso silenzioso che sancisce l'”inizio” di ogni nuova discesa trova così il proprio compimento. La parola avversa infine s’avvera.  “Lasciate ogni speranza“.

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