Chi ha vissuto gli anni ’80 lo sa: i ninja erano ovunque. In TV, nei cartoni, nelle tartarughe. E poi, su NES, dove Ninja Gaiden scolpì il proprio nome nel acciaio pixelato dei giochi difficili; Oggi, Ragebound non prova a farci rivivere quei tempi ma prova a riforgiarli con artigli moderni, in un’operazione chirurgica che si rifiuta di chiamarsi nostalgia. I ragazzi di The Game Kitchen non fanno sconti e spingono forte il bisturi fino all’osso: qui si parla di un soft reboot, sì, ma che mastica l’eredità originale per sputarla in forma di platform ultraviolento, compatto, veloce, a suo modo elegante. Una lettera d’amore scritta col sangue. Ma non il nostro. O almeno, non subito.
Kenji Mozu è il nuovo volto sotto la maschera; Ryu Hayabusa è altrove, e il loro villaggio natale rischia di diventare solo un altro cumulo di macerie in fiamme; lo spunto narrativo è minimale, e volutamente tale: serve a dare il ritmo, non a creare empatia. Non siamo qui per piangere, ma per uccidere.
La vera novità, semmai, è la presenza silenziosa ma disturbante di Kumori, ninja del Clan del Ragno Nero, che infetta il protagonista in un’unione forzata — simbiontica, quasi parassitaria. Il corpo è uno, ma le ombre sono due. E il dialogo (non detto) tra queste entità anima il combattimento meglio di mille cinematiche.
Veloce come il vento
Niente combo chilometriche, niente tasti che ti fanno sembrare un pianista in crisi esistenziale, qui si vive di salto, attacco e scatto. Fine. Tre mosse che ti inchiodano a un ritmo feroce, dove ogni frame può essere l’ultimo.
Ragebound ti spinge in faccia una verità brutale: non hai tempo di pensare, ma se non lo fai, sei morto. I nemici non sono carne da macello, ognuno ha un suo pattern, che può cambiare quando non te lo aspetti e o li studi o li subisci. E quando entri nel flusso, la danza diventa veloce e brutale, ed estremamente precisa. La base è il calcio a ghigliottina, eredità dei capitoli in 3D qui declinato al servizio del flow ninja di Ragebound, permettendo di parare i proiettili, rimbalzando ed evitando la gran parte di attacchi nemici e ambientali; il sistema della “ipercarica” è il metronomo del massacro: ammazzi con precisione, carichi la lama. Sbagli timing, e ti ritrovi disarmato nel momento peggiore; certo possiamo attivarla anche utilizzando parte della nostra energia vitale…ma in un gioco dove ogni millimetro della nostra energia vitale è la differenza tra finire un livello e un game over, beh va usata con estrema saggezza.
Ma Ragebound è anche un duetto, e la seconda voce è Kumori: kunoichi del clan del Ragno, costretta a condividere il corpo del suo nemico giurato per fuggire dal regno dei demoni. Tu controlli Kenji, ma lei non è un’ombra passiva. Kumori interviene con i suoi kunai, perfetti per colpire a distanza o attivare meccanismi a cui tu non potresti arrivare.
Questa presenza raddoppia il battito del gameplay. L’Ipercarica, già un esercizio di tempismo e precisione, si arricchisce di un codice a due colori: azzurro per i colpi di Kenji, porpora per quelli di Kumori. Sbaglia bersaglio e addio colpo critico. Riuscirci, in mezzo a uno schermo saturo di nemici e proiettili, è un atto di lucidità sotto pressione; e non è finita: Agli altari dell’anima, Kumori prende il comando. Avvolge il corpo di Kenji e lo trasporta in un mondo di piattaforme invisibili, visibili solo a lei. Il tempo è limitato, i teletrasportatori richiedono precisione millimetrica, e l’unica ricompensa è la strada aperta… o la caduta. Questi momenti sono puro ritmo: la meccanica non interrompe l’azione, la porta a un altro livello.
A completare il repertorio, l’arsenale ninja del clan del Ragno: ventagli a ricerca, granate, strumenti letali che ricordano le armi secondarie di un altra saga, con i vampiri… Scegli la dotazione prima di ogni missione, nella mappa strategica che ospita anche il negozio di Muramasa. Lì spendi gli scarabei d’oro trovati nei livelli per potenziare attrezzatura o comprare amuleti dai bonus più disparati.
I boss? In gran parte splendidi, quasi teatrali nel modo in cui ti leggono e ti umiliano. Qualche scivolone c’è, ma con una difficoltà così serrata, le imperfezioni si perdonano, la lama resta decisamente affilata.
Pixel che tagliano la retina
La pixel art di Ragebound è precisa e funzionale, priva di elementi superflui. Ogni scenario è costruito per sostenere il ritmo del gioco e mantenere alta la leggibilità dell’azione. I fondali variano in modo netto tra un livello e l’altro: templi in rovina, aree urbane devastate, grotte dalle geometrie irregolari. Ogni ambiente è caratterizzato da palette e illuminazione mirate a rendere immediatamente riconoscibili i punti d’interesse e i percorsi.
Kenji è disegnato con linee chiare e animazioni che restano leggibili anche quando lo schermo si riempie di nemici e proiettili. Kumori ha un trattamento grafico distinto, con colori e movimenti che la differenziano subito dal protagonista, così da identificare rapidamente le sezioni in cui entra in gioco.
Non c’è ostentazione stilistica, ma una cura evidente nella scelta di come e dove concentrare l’attenzione del giocatore. L’aspetto visivo non cerca di stupire con effetti ridondanti: è studiato per comunicare, per sostenere il ritmo serrato del gameplay e per mantenere il controllo sulla chiarezza dell’azione in ogni momento, insomma, per chi ama la Pixel art, più di una volta rimarrà incantato dalla bellezza visiva di Ragebound! Da segnalare però, che le versioni console rispetto a quella pc non hanno il filtro CRT, un opzione in più che sicuramente giova all’esperienza generale, e che spero venga reinserita anche su ps5 o switch.
Suoni che sanno di sangue
Le musiche sintetiche pulsano come vene sotto pelle. Ogni brano incalza, accelera, si fonde ai colpi. Il clangore metallico di Kenji, il sibilo tagliente dei kunai di Kumori, il rumore secco di un teletrasporto perfettamente centrato: ogni elemento sonoro è funzionale, mirato a far percepire lo stato di tensione.
L’audio non accompagna: avverte. Ti segnala quando stai sbagliando e ti premia con un impatto sonoro pieno quando centri il bersaglio corretto. E nei momenti in cui Kumori domina la scena, il soundscape si trasforma, sottolineando la natura aliena e temporanea di quel controllo.
Acciaio temprato
Ninja Gaiden: Ragebound è un’opera breve, affilata, senza margini di distrazione. Non vive di quantità, ma di intensità: poco più di sei ore alla difficoltà iniziale bastano a dimostrare che non vuole intrattenerti, vuole addestrarti; Kumori non è un semplice assist: è un cambio di prospettiva, un doppio respiro che ti obbliga a gestire priorità, tempi e spazi in un ambiente che non ti perdona nulla. Il gioco non chiede “sei pronto?”; ti costringe a esserlo, o a cadere. Se cercate un esperienza estremamente adrenalinica, impegnativa ma assolutamente appagante, Ragebound è il vostro dojo, se invece volete qualcosa di rilassato, pensateci due volte.
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