Pubblicato il 25/06/14 da Neko Polpo

Mother 1+2+3: nostalgia di casa

I tre capitoli della serie di Mother sono stati pubblicati da Nintendo rispettivamente su NES (1989), SNES (1994) e GBA (2006). I primi due sono stati sviluppati da Ape e HAL Laboratory, mentre il terzo da Brownie Brown (al lavoro anche su Magical Starsign per DS, giusto per citarne uno) e HAL, tutti sotto la direzione del creatore di EarthBound, ovvero Shigesato Itoi. L’unico capitolo ad aver raggiunto ufficialmente America ed Europa è stato il secondo, mentre il primo e l’ultimo sono disponibili tradotti in lingua inglese solo su emulatore.

Tra i primi elementi che la serie di Mother/EarthBound pone all’attenzione del giocatore vi è un fatto di carattere generale: al di là del valore (comunque inestimabile e straordinario) delle singole opere che vanno a comporre la trilogia, salta subito all’occhio l’incredibile capacità che ha Mother di essere una “serie”, senza dover per questo rinunciare a innovare e rinnovare il gameplay, pur solido e “roccioso”. Costruire una serie non significa dunque, nell’ottica di EarthBound, adagiarsi sugli allori, ma lavorare per migliorarsi e reinventarsi episodio dopo episodio. Certo, l’atmosfera che si respira è sempre quella del primo capitolo, conosciuto in occidente come EarthBound Zero (secondo la curatissima traduzione amatoriale dei fan), ma le meccaniche di gioco hanno saputo di volta in volta riscoprirsi e snellirsi, garantendo di diritto ai tre titoli in esame lo status di pietre miliari del medium videoludico. Pietre miliari non solo dei JRPG con combattimenti a turni, ma del videogioco in quanto tale.

La caratteristica che rimane invariata e che permette a Mother di avere una personalità ben definita è la capacità di trasmettere senso e atmosfere dell’opera non come mero arredo dell’avventura, come “contesto” di peregrinazioni e combattimenti, ma come elementi innestati nel profondo del tessuto ludico dei titoli. L’atmosfera è interattiva, è anzi parte attiva e fondante del gameplay. EarthBound è un dolcissimo percorso di formazione, una parabola della crescita che fa propri immaginari tra loro differenti (dagli zombie di Romero ai sottomarini gialli dei Beatles, passando per le critiche ai movimenti razzisti come il Ku Klux Klan, solo per fare alcuni tra gli innumerevoli esempi possibili) ed utilizza le meccaniche ludiche proprie dei giochi di ruolo con incontri casuali a turni. Di fatto ci si ritrova catapultati in un universo surreale (sarà un caso che uno dei nemici da abbattere nel secondo capitolo sia proprio un orologio “sciolto” di Dalì?), in una America immaginaria ed immaginata da anni Novanta, nei panni di un bambino alla ricerca di compagni d’avventura e significati. Come si legano dunque i combattimenti a turni con queste atmosfere, così cariche di fantasia immaginativa e reminiscenze infantili a base di U.F.O. e robot? La risposta che Shigesato Itoi ha dato è semplice e chiara: rendendo ogni elemento di gioco portatore del senso dell’opera tutta. Capita così di perdere un turno in combattimento perché il piccolo protagonista ha nostalgia di casa (per risolvere il problema si deve correre in una cabina telefonica e contattare la madre dell’“eroe”!), o di essere ingannati dai geroglifici di una piramide che parevano inanimati e si dimostrano invece nemici spietati (dopo che il giocatore è stato abituato a vedere tali geroglifici come presenze innocue…). C’è dunque un costante dialogo con chi sta davanti allo schermo, che deve interagire mentalmente, oltre che concretamente, con l’opera, perché Mother vive di continui riferimenti non dichiarati al giocatore, sfruttando le sue aspettative o idee pregresse su un certo “genere” videoludico.

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Il primo Mother e uno dei nemici divenuti simbolo del gioco. L’hippie, creatura pacifica per eccellenza, diventa aggressivo e minaccioso.

La ripetizione, tipica della pratica del “grinding”, viene “risemantizzata” e caricata di senso, diviene dunque il simbolo della crescita, dei “400 colpi” truffautiani imposti dalla vita per imparare dai propri sbagli (non a caso è uno dei primi personaggi di Mother 2, un’anonima citazione di Shy Guy, a ricordare al protagonista l’importanza dell’errore). Qui il videogioco riscopre la propria anima musicale, la propria costituzione di incessanti motivi ripetuti e gesti reiterati: la musica si fa addirittura interattiva nel terzo capitolo della serie, come avremo modo di notare.
Paragonare Mother alla musica significa comprenderne la struttura ritmica varia e composita, apprezzarne la capacità di tenere viva l’attenzione dell’ascoltatore/giocatore, anche con momenti di negata interazione e attesa, in cui è richiesta a chi sta giocando la “fatica dell’ozio”, la capacità di saper attendere e fermarsi, cosa non comune nella frenesia che spesso, in un medium “agitato” come quello videoludico, non esita a farsi sentire. Si viene costretti a leggere per due volte una lettera, una volta nelle vesti del mittente, un’altra in quelle del destinatario, ma in contesti completamente differenti, tali da attribuire un significato nuovo alle stesse parole; oppure si è obbligati ad attendere per tre minuti l’apertura di una porta dopo aver pronunciato una parola segreta… Gli esempi potrebbero continuare per ore, e confermerebbero solamente l’idea che interagire non significhi per forza essere dotati della più ampia libertà di scelta possibile, ma anche essere assoggettati da uno strumento elettronico che impone una pausa o una ossessiva reiterazione di gesti meccanici, che neanche nel Chaplin di Tempi Moderni: insegnamento ripetuto recentemente in area indipendente, da capolavori come The Stanley Parable, con la sua maratona lavorativa della durata di quattro (quattro!) ore, ore di partecipazione attiva forzata, fino al riscatto ultraterreno del proletario interattivo nel Paradiso di una divinità, forse una speranza, indefinibile. Giochi come Gone Home, Dear Esther, Dinner Date, Little Inferno, Proteus e The Novelist (sono solo alcuni) hanno saputo ribadire e “ripetere”, appunto, la validità di una (auto)costrizione, la specificità di un medium: quella della forzatura nei confronti di un giocatore che si illude (e vuole illudersi?) di essere libero.

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Mother 2/EarthBound: un meteorite si schianta vicino a casa e…

Si accennava, in apertura, alle innovazioni a cui la serie di EarthBound ha saputo sottoporsi nel corso della sua ventennale carriera (in realtà si celebra quest’anno il venticinquesimo anniversario della pubblicazione di Mother). Se infatti il primo capitolo risulta oggi quello più ancorato alla tradizione dei GDR e di sicuro il più “duro” da digerire (ma le soddisfazioni che regala sono impagabili…), con una richiesta di livellamento imponente e una difficoltà degli scontri piuttosto elevata, con gli anni la serie ha saputo introdurre gli incontri casuali con i nemici però ben visibili sulla mappa, con il vantaggio di poter evitare scontri inutili e/o pericolosi. Un esempio di “snellimento” di una formula che rimane ancora vincente, persino nella prima “incarnazione” della serie.
Il secondo capitolo è anche quello che ha visto crescere la propria componente metavideoludica, con costanti riferimenti ed ammiccamenti al giocatore, fino all’ultimo, disturbante scontro, in cui vengono tirate in causa le aspettative, le attese e le speranze di una persona “reale”, tanto da renderle concretamente partecipi nell’interazione concettuale richiesta dal gioco. Con un semplice espediente, l’interazione si sposta dal piano “fisico” (o meglio, mediante il piano fisico) al piano concettuale e mentale, proponendo una partecipazione non “concreta” ma semplicemente pensata, una partecipazione intellettuale che trova riscontro in un’azione “automatica” della “macchina”. Una macchina che si fa straordinariamente umana (o un uomo che si fa straordinariamente macchina?) e porta la coincidenza in un mondo di numeri definiti e di calcoli all’ultima cifra binaria: un’interazione che ha senso proprio là dove le scelte vengono meno, e non rimane che l’ineluttabilità di un programma. Ci si scontra con un limite imposto, con l’impossibilità di una scelta, in barba a chi pensa che “videogiocare” equivalga a non avere costrizioni. Si marca la natura del videogioco come recinto chiuso in cui le possibilità sono sempre “finite”, in fondo, proprio per risvegliare una partecipazione del giocatore con se stesso e con l’oggetto della propria interazione. Con buona pace di chi, ancora oggi, davanti ad opere che limitano il ventaglio di scelte fornite al giocatore (i titoli citati in precedenza ne sono un chiaro esempio) si limita a banalizzanti riflessioni sulla “assenza di gameplay”. Controsenso in termini travestito da verità assoluta. Vera rivoluzione: interazione obbligata.

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Mother 3: il legno è l’elemento centrale del gioco, sempre a rischio di essere sradicato dal cemento. Questo è di sicuro il capitolo più “distopico” della serie e  non teme l’incontro con argomenti politici, filosofici e persino economici.

Il terzo capitolo porta avanti quanto di nuovo e di buono si era intravisto nel secondo, aggiungendo un ulteriore elemento di gameplay, sul piano dei combattimenti: la musica, come si diceva, diviene interattiva, garantendo una maggiore quantità di danni in base alla precisione “ritmica” della pressione dei tasti deputati alla selezione delle voci in combattimento. Una nuova introduzione che, se non stravolge le meccaniche di base (che di stravolgimenti non hanno bisogno), aggiunge un elemento di piacevole novità, capace di evidenziare ancora di più la struttura musicale di Mother. Non si può dimenticare che nel frattempo Nintendo aveva portato avanti ricerche sul gioco di ruolo volte a “dinamicizzare” gli scontri, lavorando proprio sul ritmo (anche se non quello strettamente “musicale”) di ogni azione che, se eseguita correttamente e con il giusto tempismo, consentiva di ottenere risultati migliori nelle fasi d’attacco e di difesa. È questo il caso degli spin-off “ruolistici” dedicati alla mascotte della casa di Kyoto: Super Mario RPG: Legend of the Seven Stars (SNES, 1996), sviluppato da Square, Paper Mario (2000) e Paper Mario: Il Portale Millenario (GameCube, 2004), entrambi sviluppati da Intelligent Systems.

Tutto ciò senza considerare il comparto visivo, graziato da una pixel art con visuale a volo d’uccello in grado di lasciare a bocca aperta ancora oggi, senza essere invecchiata di un giorno. La serie di Earthbound, sia nella “versione” a 8-bit del capostipite, sia in quelle a 16-bit dei due successori, è ancora una delle creazioni visivamente più sorprendenti di tutti i tempi.
Il comparto sonoro, curato da Keiichi Suzuki (maestro già al lavoro con il prematuramente defunto e mai troppo ricordato Kenji Eno su Real Sound: Kaze no Regret), Hirokazu “Hip” Tanaka e Hiroshi Kanazu per i primi due titoli e da Shogo Sakai per il terzo, è uno dei migliori lavori musicali per il videogioco mai composti, come già si accennava nel corso della discussione.

Qual è dunque il senso del recupero di un’opera come Mother? Cosa significa, in generale, guardare al passato e che importanza ha per il presente?
Le risposte sono molteplici, e la più semplice, ma non per questo meno veritiera, è che questi titoli sono ancora divertentissimi oggi, e sono quindi importanti anche in vista di un puro piacere ludico. Se quanto appena detto è vero, non si può negare che il tempo abbia investito questi lavori di nuovi e più stratificati significati: recuperare il passato oggi vuol dire renderlo nuovamente attuale, comprenderlo e sfruttarlo in tutta la carica innovativa che è ancora in grado di offrire. Riprendere in mano EarthBound nel 2014 significa recuperare un capolavoro di ieri e capire cosa possa significare per l’oggi. In un presente ossessionato dal fotorealismo nel videogioco (appannaggio, miraggio irraggiungibile, se partiamo dalla constatazione che il mondo videoludico è mondo ricreato e non appunto fotografato. La relazione con la “referenzialità mondana” fotografica o filmica, quando è presente, nei videogiochi è ben altro dalla semplice emulazione  grafica della realtà) “retrogiocare” significa riscoprire il valore di pochi pixel che tratteggiano una figura, di pochi pixel che si animano e lasciano spazio al non visto, all’immaginazione visiva di un giocatore oggi forse troppo imboccato. Un piccolo mondo in cui un ballo legnoso sancisce la nascita di un amore di plastica, e in una semplicità di fondo, in due parole a schermo senza doppiaggio, in uno sguardo statico, immobile da venticinque anni, c’è tutto l’amore possibile. Un po’ come nella semplicità amorosa dell’Atalante di Vigo, ricorda Enrico Ghezzi.
Ma “retrogiocare” significa anche ritrovare le “radici di pratiche innovative” del passato che aiutino a sfuggire dalle imperanti banalizzazioni (su un certo uso del medium, su riflessioni che cercano di aprire altre vie alla comprensione delle opere bollate come “pippe mentali”…) di un quotidiano votato alla pseudo-democrazia di un tubo non più catodico, di una vetrina di egocentrismi pieni di retorica che uccidono ogni volontà di pensiero e dialogo, inteso come scambio culturale.
Ecco allora il Celacanto con il suo “tapetum ludicum”, in tutta la sua misteriosa ed enigmatica bellezza di “fossile vivente”. Un Celacanto eternamente Bambino.

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