“Forse non sapete che anche nei giochi da tavolo ci sono titoli che utilizzano una sorta di intelligenza artificiale….”
Così iniziava la prima parte di questa rassegna. Ora che ne sapete qualcosa in più, direi di passare ai giochi più “difficili” e più lontani dal grande pubblico dei board game: i wargame.
Negli ultimi anni, il mondo del wargame, soprattutto non tridimensionale, ha fatto passi da gigante nel game design, iniziando a guardare con interesse altri generi (gli eurogame su tutti) per trovare nuove soluzioni che andassero oltre la solita rappresentazione ad esagoni.
In questo articolo parleremo dei seguenti titoli: Labyrinth, Navajo Wars e D-Day at Omaha Beach. Alla serie CoIn dedicherò un articolo a parte, così come a Churchill, vero top-seller del 2015 nella categoria dei wargame ibridi.

Nel 2010 irrompe sulla scena dei wargame un titolo veramente particolare: Labyrinth. Da molti definito subito – erroneamente – come simile a Twilight Struggle, questo titolo per due giocatori permette di ripercorrere la guerra al terrorismo dall’invasione dell’Afghanistan, assumendo i ruoli di Stati Uniti e Jihadisti. Ma dov’è la sua particolarità?
Labyrinth ha un sistema profondamente differente dal suo presunto genitore: le due fazioni hanno azioni differenti con le quali interagiscono con la mappa. Non una singola azione possibile è condivisa. Questa asimmetria è diventata una pietra fondante e lo è rimasta fino ad oggi nel design di wargame che trattano situazioni geopolitiche, invece che meramente militari. Soprattutto, Labyrinth è stato uno dei primi giochi che ha mostrato come il mutare delle situazioni di conduzione di un conflitto moderno tipicamente geopolitico necessiti di un cambio di design, andando a ricercare e ad attingere in generi più “gestionali” come gli eurogame.
L’altra cosa straordinaria è rappresentata dal fatto che c’è una variante in solitario del gioco in cui giocatore umano assume il ruolo degli Stati Uniti, mentre l’intelligenza artificiale veste i panni dello Jihadista. Ma andiamo per gradi.
Lo Jihadista interagisce col mondo, diviso tra stati islamici e non islamici, nei seguenti modi:
- Recluta nuove cellule,
- Si sposta,
- Pianifica attentati, utilizzando anche armi di distruzione di massa,
- Inizia una Jihad minore per far peggiorare le condizioni di governo di un paese oppure una maggiore per instaurare un regime islamico nel paese attaccato.
Gli Stati Uniti invece:
- Ridispongono truppe nei paesi alleati,
- Invadono regimi islamici, instaurando governi non islamici,
- Portano avanti la loro Guerra delle Idee, migliorando il governo dei vari paesi contro la minaccia terroristica,
- Estirpano le cellule che si sono svelate nei paesi in cui sono presenti truppe.
Come ho già detto, le azioni sono profondamente differenti.
Ma… dov’è l’IA nel gioco? Nella modalità solitario l’intelligenza artificiale, tramite un diagramma di flusso, gestirà sia la mano di carte dello Jihadista che le azioni da lui intraprese.

Sia la partita in due che quella in solitario hanno le medesime condizioni di vittoria: gli Stati Uniti devono eliminare tutte le cellule terroristiche dalla mappa, avere un certo numero di punti risorse in paesi alleati o un certo numero di paesi con un buon governo, lo Jihadista invece deve guadagnare un certo numero di punti risorse, di cui almeno due adiacenti, in paesi in Regime Islamico, causare un pessimo governo in un determinato numero di paesi o piazzare un’arma di distruzione di massa negli Stati Uniti. Il tutto condito con carte che ripercorrono gli eventi più importanti di questi ultimi anni.

Neanche tre anni fa, sulla scena del wargame, irrompe questo gioco direi quasi unico nel suo genere. Non solo perché è interamente in solitario, come lo furono Ambush e Raid on St. Nazaire, ma anche per la possibilità di osservare un momento storico da una prospettiva unica nel suo genere: quella di un indiano Navajo. Il gioco, infatti, ripercorre la storia della loro nazione, dalle prime incursioni Spagnole del 1595, fino alla sua completa conquista nel 1864, per mano dell’armata Statunitense di Kit Carson.
Tutto nel gioco viene gestito da un mazzo di carte, ognuna delle quali fornisce un evento casuale, come potete vedere nell’immagine di seguito:

Sulle carte ci sono le istruzioni da seguire per applicare l’evento. Dopodiché toccherà al giocatore effettuare un’azione a scelta tra tre:
- Pianificare il futuro,
- Compiere azioni di normale gestione della popolazione,
- Far passare il tempo, cambiando il mondo attorno.
Ogni azione è molto dettagliata e permette un sacco di opzioni. La difficoltà di questo gioco sta nel reggere alle invasioni esterne, ognuna di potenza crescente nel tempo, dagli Spagnoli agli Americani. A voi sta gestire le famiglie che si muovono attorno al terreno sacro dei Navajo e le loro interazioni con i vicini, non meno pericolosi degli invasori esterni, in quanto il loro obiettivo è acquisire sempre più territorio e schiavi. È necessario tenere assieme le varie famiglie, basta perdere un membro e smettono di funzionare, perché, senza alcuni componenti, gli Anziani non vengono cambiati col passare del tempo. In definitiva, dal punto di vista dei Navajo, avete un territorio molto vasto da gestire, subissato da continue invasioni che vanno ad intaccare le risorse, umane e non, a vostra disposizione, una nazione da salvaguardare per dare un futuro alla vostra cultura e identità.

La vera perla di questo gioco rimane la minuziosa ricerca storica e sociale della cultura Navajo, soprattutto riguardo i ruoli all’interno della famiglia e della nazione indiana, nonchè il punto di vista che che offre sull’invasione di nazioni “civilizzatrici”.

Vi ricordate quando ho parlato di John Butterfield? Uno dei geni del design di giochi in solitario è ancora in attività e più va avanti, più affina e migliora la propria tecnica. Nel 2009 se ne esce con un gioco in solitario sullo sbarco in Normandia, in particolare sulla spiaggia di Omaha. Il giocatore, assumendo il ruolo dell’invasore, deve riuscire non solo a scardinare le difese costiere, ma anche ad inoltrarsi nell’entroterra abbastanza velocemente da mettere in crisi la difesa “artificiale” del tedesco. Purtroppo per ogni settore (orientale e occidentale) è possibile fare solamente una mossa con una pedina, questo perché i turni simulano da 15 a 30 minuti nella realtà.
Il sistema è classificabile come “serie di ingranaggi perfetti il cui movimento risulta armonioso” e non è neanche una definizione troppo di parte. Dei tre giochi presentati in questa seconda parte, siamo di fronte a quello più militare, di guerra, nella concezione classica del termine, ma anche a quello più alto come design. Anche qui il fattore randomico è gestito da un mazzo di carte ed una serie di procedure, ma tutto è finemente ramificato per riproporre delle condizioni di gioco molto vicine alla realtà.

Le unità che sbarcano sono soggette alla marea, relativa al punto in cui sono approdate. Prima ancora che possano guardarsi attorno, vengono messe duramente sotto il tiro delle postazioni fortificate costiere. Ai genieri l’arduo compito di sminare la spiaggia, per evitare che gli ordigni antinave facciano saltare i mezzi da sbarco in prossimità della costa. Quando tutto sembra più tranquillo, le truppe sbarcate possono muoversi e attaccare le posizioni nemiche per aprire i famosi varchi lungo le gole che portano all’entroterra.

Il gioco non è affatto per tutti, può risultare molto difficile e frustrante per le prime partite. L’autore, sui 32 turni previsti, ha inserito un check di sconfitta a metà, cioè al 16° turno: se l’Americano non è riuscito ad accumulare un certo numero di punti vittoria, ovvero posizioni notevoli sulla mappa, perde automaticamente. Nel caso riesca nell’impresa, passa al turno 17, con l’aggiunta di regole sui carri armati sbarcati e di fasi di gioco per il tedesco.
In tutto ciò, qual è la curiosa particolarità di questo gioco? Qualcosa di cui non vi ho ancora parlato. A differenza di altri wargame, questo non ha un dado, è interamente gestito da carte e tabelle.