Una delle cose che ricordo con più tenerezza della mia gioventù “pane e videogiochi” è l’immagine di una lettera pubblicata sulle pagine di Game Power, con il disegno di un Mario cubettoso, scolpito nel legno, e un fumetto che recitava “W la grafica poligonale“; nello stesso numero, un recensore entusiasta premiava Super Mario 64 con il primo 100/100 della storia della rivista. Ricordo allo stesso modo la mappa di Final Fantasy VII, e che appena uscito da Midgar misi Cloud vicino alla prima scogliera utile e lì lo lasciai per qualche minuto -assaporando la scena creata, roteando la telecamera per trovare l’inquadratura migliore del nobile protagonista col vento nei capelli.
Per un ragazzino che usciva fresco fresco da Donkey Kong Country e Final Fantasy VI, si trattava di qualcosa di fantastico: una letterale nuova “dimensione” di gioco, la terza dimensione, che prometteva un futuro grandioso. Il passaggio fra la quarta e la quinta generazione di console ha costituito una tempesta perfetta di diversi fattori che hanno contribuito a farne uno dei maggiori balzi nella storia del settore: una migliore architettura interna e la maggiore capienza del supporto CD sono state la base per l’avvento del 3D e dei poligoni come nuovo standard grafico. Da quei giorni ne è passata di acqua sotto i ponti, e il mondo degli sprite ha subito un inesorabile declino a favore dei poligoni e degli ambienti in tre dimensioni. Il 2D è stato relegato agli emulatori, al retrogaming, a qualche sporadico capolavoro come Symphony of the Night e allo stile ibrido tipico di alcuni JRPG dell’epoca (che forse più di tutti riuscì a combinare benissimo la tradizione del genere con le nuove potenzialità della terza dimensione); il resto del mondo è andato avanti, si potrebbe dire, in modo quasi matematico: tre dimensioni sono sempre superiori a due.
Da qualche anno, timidamente, il settore sembra però avvertire aria di cambiamento: sulle scogliere di Midgar c’è aria di una seconda tempesta, che promette di scardinare tante certezze quante ne avevamo allora -non una rivoluzione hardware, stimolata da maggiore potenza o da periferiche impossibili come Oculus Rift, ma qualcosa di più sottile. A dare inizio al tutto è una combinazione di alcuni innocenti battiti d’ala:
- I gamer di seconda generazione -nati e cresciuti in un mondo in cui l’hobby dei videogiochi si vede già affermato. Sono persone che frequentano corsi e master in game design, game jam, e smanettano con tool aperti a tutti (da RPG Maker a Unity). Sono game designer collaterali, perché sanno quello che vogliono e hanno la visione per realizzarlo.
- Il modello crowdfunding (esemplificato nella piattaforma Kickstarter) che, sebbene non immune da truffe e pessimi prodotti, elimina il primo dei due sbarramenti all’ingresso del mercato -i fondi necessari a iniziare un progetto. Tramite il crowdfunding, ai creatori è possibile presentare i propri progetti e raccogliere feedback e attenzioni del settore, mettendo in moto un processo virtuoso.
- Le nuove possibilità di digital delivery come Steam Greenlight, che permettono di eliminare il secondo degli sbarramenti (ovvero la distribuzione), raggiungendo direttamente i fan sia nelle fasi di prelancio, lancio e vendita del prodotto.
Riuscite a sentire i refoli di vento? Il modello indie è una realtà consolidata, fatta da persone con idee e i mezzi per attuarle; lontano dalla grande distribuzione, i piccoli team hanno lo spazio per andare a colpire la famosa long tail del mercato producendo titoli per nicchie specifiche. Lontano dalle logiche di mercato e dalle economie di scala dei prodotti tripla A, i piccoli team hanno lo spazio per iniziare a sperimentare -e sebbene nel settore indie ci sia spazio per tutto, c’è un trend che va affermandosi da alcuni anni e che solo recentemente ha trovato una sua definizione: è la tempesta di cui sto parlando, e si chiama Hi-Bit era.
Non è solo una questione di pixel art: la Hi-Bit Era consiste in un ritorno all’estetica 16-bit con la fluidità di animazione, la profondità di colori, le risoluzioni HD e i framerate dei giorni d’oggi; gli elementi di gameplay sono irrilevanti, dato che stiamo parlando di una rivoluzione puramente stilistica capace di abbracciare generi e meccaniche da Stardew Valley a Hyperlight Drifter, da Owlboy a Sword & Sorcery -semplicemente, una tempesta perfetta di visione artistica e potenza di calcolo ci ha portato al punto in cui giochi in pixel art non devono per forza fare pena dal punto di vista grafico. Simon Andersen, uno dei creatori di Owlboy, ha illustrato perfettamente la questione, tracciando un parallelo fra lo sviluppo della grafica poligonale nei videogiochi con lo sviluppo di forme d’arte come la fotografia o la stampa 3D (apparentemente considerabili come dei successori rispettivamente di pittura e scultura): l’artista deve forse abbandonare la pittura, una volta scoperta la fotografia? Il singolo artista forse sì, a seconda delle proprie sensibilità -ma la creazione di nuove forme d’arte può solo porre limiti a quelle precedenti, non togliere loro valore.
Forse il fatto che si riesca, oggi, a parlare di correnti artistiche nei videogiochi è segno di una qualche maturità del settore; più di tutto, parlarne ora a causa di sprite e di una estetica vecchia più di 20 anni è forse anche la conferma (se mai ce ne fosse stato il bisogno) che la maggior parte dell’industria non sia mai stata in grado di legittimarsi, di porre delle domande sul proprio futuro stilistico e inseguendo invece un modello di produzione prettamente commerciale basato sulla competizione tecnologia. Una inerzia continua all’insegna del maggiore realismo, di modelli ed effetti sempre più complessi -senza tuttavia riuscire a creare uno stile ed un linguaggio tipici, capaci di essere ricordati anche dopo molto tempo. Intendiamoci: il rifiuto sproporzionato di sprite e 2D che l’industria iniziò fra la quarta e la quinta generazione fu sicuramente la pietra angolare di numerosissimi sviluppi del settore (primo fra tutti l’inseguimento del modello hollywoodiano, rappresentato da personalità come Kojima e giunto al suo apice con titoli come Beyond: Two Souls e Last of Us), ma con il senno di poi questo inseguimento del linguaggio cinematografico sembra essere stato più il frutto di una forzatura che di uno sviluppo organico vero e proprio -una forzatura basata sul rifiuto dell’estetica precedente unicamente vista come limitazione tecnica.
Forse ora, nell’istante in cui l’elemento poligonale “classico” sembra mostrare i propri limiti, fra prodotti che lo spremono al massimo (come Uncharted 4) e i vari visori per realtà virtuale alle porte, è un buon momento per iniziare a porsi delle domande e tracciare dei paralleli con quello che accadde vent’anni fa. Forse avendo oggi un esempio di un prima (gli sprite) e di un dopo (i VR) per quanto riguarda le tecnologie grafiche, è possibile rendersi conto che non si è mai trattato di livelli qualitativi ordinabili in una scala -per cui un titolo realizzato in VR sarebbe necessariamente un gioco “migliore” di qualsiasi altro titolo con grafica fotorealistica, a sua volta sempre “migliore” di un qualsiasi altro titolo in pixel art.
Che certi progetti e certe visioni abbiano avuto bisogno di tecnologie avanzate o di ambienti 3D per essere realizzati a pieno non è mai stato in discussione; piuttosto, vale la pena chiedersi come mai l’industria non sia stata in grado (per anni) di portare avanti anche altri tipi di progetti.