Asmik Ace Entertainment ha pubblicato negli anni (la fondazione della compagnia risale al 1985) numerosi videogiochi, alcuni dei quali estremamente interessanti e poco, se non per nulla, ricordati. Non è certo questa la sede per un’ analisi approfondita di tutto il “repertorio” Asmik, e nemmeno per un elenco esaustivo di tutte le opere per cui la compagnia (che nel 2012 ha subito una sorta di “rinnovamento”, segnalato già nel nome dall’espunzione della parola “Entertainment”. Un cambiamento di cui il presidente Masanori Miyata parla in un comunicato apparso sul sito dell’azienda) ha rivestito il ruolo di publisher, quanto più una buona occasione per ricordare alcune delle sue produzioni più interessanti.
Una sorta di omaggio nei confronti di opere oggi (ma forse anche allora) “underground”, un corpus di lavori nascosto e capace di portare interessanti novità e addirittura, come vedremo, sorprendenti “anticipazioni” nel mondo videoludico.
Nel ripercorrere la strada di Asmik, pur in maniera asistematica e cronologicamente dissestata, non si possono trascurare alcuni titoli particolarmente interessanti: tra questi avvicineremo, anche se in modo estremamente parziale, LSD – Dream Emulator, Jumpin’ Kid – Jack to Mame no Ki Monogatari, Oh No! e Asmik-kun Land. Il tutto trascurando purtroppo altre opere, come Rupan Sansei – Cagliostro no Shiro -Saikai- (Lupin III – Il Castello di Cagliostro), Catrap, Dokapon DX, Rhythm ‘N’ Face e lo sconosciuto (e pressoché introvabile) Meimon! Tako Nishiouendan.
Il primo titolo in esame è LSD – Dream Emulator, ideato da Osamu Sato (già autore del succitato Rhythm ‘N’ Face e di Eastern Mind). LSD (classe 1998, disponibile su Playstation e riproposto su Playstation Network) si è rivelato un titolo carico di sorprendenti innovazioni, che sarà bene sottolineare e che riveleranno interessanti “anticipazioni” storiche, importanti “appunti di game design” in grado di fornire spunti di riflessione all’oggi videoludico. In sostanza il titolo lascia controllare al giocatore “solo” lo spostamento in un mondo tridimensionale e la “direzione” dello sguardo, ovvero il movimento della “telecamera”. Il gioco obbliga così a vagabondare per scenari all’inizio completamente sconosciuti, in preda ad una tensione crescente. La tensione parrebbe ingiustificata, dato che non esistono nemici veri e propri e tanto meno è possibile combattere, ma basta a legittimarla il fatto di essere presenti in un “regno” virtuale, in cui i segni visivi e i segni musicali si stratificano, le visioni si incrociano e la percezione si fa sempre più distorta.
Un cosmo virtuale in cui si tornano a visitare sempre gli stessi luoghi (variati in una determinata texture, per esempio) e talvolta si trova una strada nuova, un nuovo sogno da seguire e in cui affogare, in cui sentire l’acqua alla gola per un male che non si mostra e che è il solo fatto dell’esistere oltre lo schermo. Uno schermo in cui, sostanzialmente, non accade nulla eppure accade tutto, nessuna tragedia prende il sopravvento, eppure il più grande orrore sembra essere in procinto di attaccare. Attaccare alle spalle. Il giocatore non può fare altro che muoversi. Camminare. Correre. E scappare via da qualcosa che è sempre oltre ciò che si vede e che, in realtà, è proprio in ciò che si vede. Un lavoro estremamente metafisico, in cui l’elemento “fantastico” è nelle cose, al loro interno, un “fantastico” che si manifesta nella “solitudine dei segni” (riprendiamo qui alcuni concetti espressi da Silvia Bellotto -e dagli autori a cui l’autrice fa riferimento- nel suo saggio Metamorfosi del fantastico, dedicato al lavoro, in questo caso letterario, di Savinio e De Chirico, tra gli altri).
E qui entra in gioco un altro tema metafisico caro a De Chirico, quello dell’inquadratura. Facile bollare il controllo di una telecamera virtuale come “non fondamentale” ai fini del gioco, ma qui il semplice gesto dell’inquadrare il mondo viene risemantizzato, se ne riscopre la funzione ludica. Inquadrare significa naturalmente escludere una porzione di mondo, isolarla e velare il resto, lasciare tutto ciò che della “finestra” rimane escluso in dubbio. Un inquietante dubbio di presenza incerta, il dubbio di girarsi e trovare un televisore, un semplicissimo televisore fuori posto, elemento deflagrante di una sintassi del reale che si regge su un filo sospeso nell’abisso del non percepito. Un elemento quotidiano, un fantastico, un rimosso, un disturbante che si annida nell’innocuo e non nel mostruoso (pur presente, ma utilizzato sempre e costantemente in maniera metafisica). Un gioco metafisico non perché citi apertamente la corrente artistica interessata, ma perché capace di trasportare la “filosofia” artistica in questione sfruttando il medium videoludico nelle sue straordinarie specificità. LSD è l’inquietudine di un nulla, di un mondo distorto dai colori invertiti e una colonna sonora “sovrapposta”, di temi wagneriani che non rimandano più a nulla, nessuna anamnesi da esperire, stratificazioni che riportano ad altre stratificazioni di pellegrinaggi nel “normale”, disturbato da continue variazioni che fanno smarrire l’immagine originaria. Si vorrebbe tornare all’origine, ma una volta innescato il processo non è dato tornare al punto di partenza e dell’inizio rimane solo un pallido ricordo. E si cerca la pace, la pace da un paura che assedia continuamente, una paura derivata dal semplice vedere “dentro” i segni, e dentro i segni il timore di riconoscerne altri, e di non saperli decifrare, fino all’apparizione che uccide, in un sacrificio consumato nel magazzino, deposito di una fine provvisoria e di un altro inizio. Fine provvisoria e nuovo inizio che non possono non riportare alla mente, tredici anni dopo, le peripezie di Stanley, le infinite conclusioni fittizie e il continuo circolo vizioso asimoviano di un impiegato ben addestrato a premere pulsanti. E l’idea della presenza nell’ambiente (parola quanto mai importante, soprattutto oggi, per il videogioco, parola che meriterebbe un vero e proprio recupero) e della ludicità di un’inquadratura non può che far pensare a Kanaga e al suo Proteus, anno domini 2013. E sono solo due esempi tra tutti quelli possibili.
Si rivela dunque la potenza di un mezzo che costringe a interagire sul nulla, un mezzo che riscopre la forza di una semplificazione. Un mezzo che ha il coraggio di affermare che il solo movimento è già videogioco. Interazione essenzializzata, mai banalizzata.
Il secondo titolo è Jumpin’ Kid – Jack to Mame no Ki Monogatari, platform per NES (1990) che mette il giocatore nei panni di Jack, il protagonista del famoso racconto a base di fagioli e piante abnormi. Il platform in questione è interessante per una serie di motivi, tra i quali spicca una struttura dei livelli che si sviluppa principalmente in verticale, data la situazione. Altro elemento degno di nota riguarda il sistema di combattimento, visto che il piccolo protagonista non è in grado di eliminare i nemici (non tutti, almeno) e può solamente stordirli, in modo da non subire danni da contatto. A ciò si aggiungono alcuni power up, un minigioco alla fine di alcuni livelli (come il divertente tiro al bersaglio in 2D, sviluppato anch’esso in verticale!) e la precisione millimetrica richiesta per salire sempre più verso il castello nel cielo, alla ricerca di ricchezze. Un espediente, quello della costruzione in verticale, che obbliga a calcolare con attenzione ogni movimento, pena la “caduta” e l’obbligo di ripercorrere una parte del livello, con tanto di nemici già “affrontati” (una volta colpiti, gli avversari precipitano verso il basso e ritornano a pattugliare la zona ad un livello inferiore rispetto a quello precedente, e cadere significa ritrovarseli davanti).
Oh No! è invece un titolo per Playstation pubblicato nel 2000. Si tratta di un “run game” piuttosto curioso, un po’ per le atmosfere bizzarre che caratterizzano tutta l’opera, un po’ per il fatto che al giocatore è affidato il controllo di un duo (e, poi, un trio) di rumorosi individui a caccia di hamburger. Lo spostamento in avanti su strade più o meno dissestate è automatico, come si conviene a un titolo del genere, ma il giocatore può intervenire sulla disposizione dei protagonisti lungo l’asse orizzontale e decidere in quale delle due formazioni disponibili farli marciare: in fila indiana o uno accanto all’altro. Bisogna tenere conto delle distanze, sia in verticale che in orizzontale, cercando di evitare tutti gli ostacoli sul percorso (cortei di brasiliane, vicini del quartiere e chi più ne ha più ne metta). Ogni livello è poi concluso da un minigioco ritmico. Il tutto condito da una veste grafica che mescola scenari in 3D con personaggi bidimensionali, assieme ad una colonna sonora pseudo-ska delirante. Semplice ed efficace.
Asmik-kun Land, infine, è un platform (pubblicato per NES nel 1991) che si rapporta in modo intelligente e costruttivo con il “genere”, costruendo un titolo divertente e curato a partire dalla struttura dei livelli, come avremo modo di notare.
Il gioco presenta meccaniche essenziali: il piccolo drago fucsia già citato precedentemente (e stranamente somigliante agli eroi di Bubble Bobble di Taito), mascotte di Asmik Ace Entertainment, ha a propria disposizione solo la capacità di saltare e, come unica arma, una coda capace di eliminare in un sol colpo e fino a una certa distanza (quasi) tutti i nemici presenti nei livelli, che vanno semplicemente attraversati da un punto A ad un punto B. Ogni mondo di gioco (sono otto in tutto) è costituito da due livelli, più uno scontro con il boss di turno. Apparentemente è tutto qui, ma la “finezza” e la qualità del gioco si celano nella fantastica costruzione dei livelli, assemblati secondo una logica ritmico-musicale che fa leva sulle aspettative del giocatore, riproponendo sezioni intere di livelli praticamente uguali a quelle incontrate in precedenza, con minime variazioni che puniscono, però, ogni distrazione. La velocità del protagonista, inoltre, è tarata volutamente verso il basso, e ciò costringe a calcolare i passi successivi con buon anticipo, anche perché con un semplice contatto avversario si è messi al tappeto. E il livello ricomincia dall’inizio. Di fatto l’esercizio imposto dal gioco è estremamente mnemonico, e questo nonostante il primo impatto con il level design, che potrebbe apparire estremamente banale e superficiale. In realtà le trovate non finiscono qui, dal momento che lo scorrimento nel livello non è “reversibile”: tutta la parte di scenario che raggiunge l’estremità sinistra dello schermo non è recuperabile.
Un’arma a doppio taglio per il giocatore che, se da un lato può usufruirne vantaggiosamente come mezzo per schivare i nemici, dall’altro, come vedremo, può subirne anche gli effetti negativi.
Un altro elemento da considerare nell’analisi di Asmik-kun Land è la presenza e la distribuzione dei nemici lungo il percorso. Il design dei livelli sembrerebbe incitare il giocatore a evitare lo scontro (con piattaforme su più piani e “strade alternative”), ove possibile, e ciò indurrebbe ad una estrema banalizzazione delle dinamiche, perché basterebbe aspettare il passaggio dei nemici per poi dirigersi verso la fine del livello. Ma il gioco di Graphic Research sorprende ancora, introducendo degli scontri con i boss di fine livello che obbligano ad accumulare un certo numero di uova (che vengono rilasciate dai nemici sconfitti e si rompono dopo pochi secondi se non vengono raccolte). Le uova diminuiscono durante il combattimento fino a raggiungere lo zero, e ciò corrisponde a una vita in meno a disposizione del giocatore. Una scelta di game design che obbliga a confrontarsi con i nemici, ben consapevoli che un colpo è sufficiente sia a vincere, sia a perdere lo “scontro”. Notevoli anche i duelli con i boss di cui sopra, costruiti attorno alla morra cinese (un titolo recente incentrato sullo stesso gioco è il bellissimo A Tokyo Tale: Attack of the Friday Monsters, di Kaz Ayabe, autore della serie Boku no Natsuyasumi). Tutta la struttura di gioco, è importante notarlo, è costruita attorno alla pazienza. Asmik-kun Land non è un platform frenetico: richiede piuttosto di agire nel modo giusto al momento giusto. Capita spesso, giocando, di cedere alla fretta e di compiere così gli errori più grossolani.
È questo un titolo che richiede un equilibrio e uno studio delle simmetrie nelle “mappe” di gioco, per individuare vie di fuga e nemici. Un’opera ormai dimenticata che rivela una perfetta struttura “matematica”.
Cosa si è dunque voluto proporre nel corso di questa disquisizione? Essenzialmente un saluto, molto “personale” e “contingente” (si è detto dell’impossibilità anche solo di elencare tutti i titoli Asmik e quindi, a maggior ragione, di giocarli), a una produzione che rischia di finire nell’oblio e che merita, invece, di essere salvata. Ricordata. Asmik Ace Entertainment non è morta. Lunga vita a Asmik Ace Entertainment.