Avevo sei anni e un pad di plastica del Nes incastrato tra le mani. La tv era una cassa di vetro e legno che sputava fotogrammi tremolanti. Da qualche parte, in quell’abisso a 8 bit, una faccia gialla correva dentro un labirinto, inseguita da quattro fantasmi e dal peso dell’eternità. Non capivo ancora cosa fosse l’ansia, ma Pac-Man me l’ha spiegata prima di Freud.
Sono passati quarantacinque anni da quando è nato; lui corre ancora, io provo a stargli dietro, con esiti altalenanti.
Pac-Man non è mai stato un semplice videogioco. È un archetipo digitale, una forma pura. Non ha braccia né gambe, non ha un volto vero, ma è più espressivo di interi open world da milioni di dollari. Mangia, scappa, mangia di nuovo. Non parla mai, ma ci racconta tutto: l’ossessione per il punteggio, il desiderio di controllo, la paura del fallimento. È l’ansia da performance fatta sprite.
Toru Iwatani dice di averlo pensato guardando una pizza a cui mancava una fetta. Ma in realtà, Pac-Man è una delle prime vere divinità del digitale: un dio bulimico e ciclico, che mangia e viene mangiato, che rinasce sempre nello stesso livello, in un loop karmico senza catarsi. I fantasmi — Blinky, Pinky, Inky e Clyde — non sono nemici: sono l’entropia, il caos che si muove secondo logiche che il giocatore impara a intuire, ma mai del tutto a dominare. Non sono boss da sconfiggere, ma predatori da evitare. E tu? Sei preda e predatore insieme. Hai potere, ma solo per pochi secondi. La vulnerabilità è il default.
Un manuale di design lungo una riga di codice
Pac-Man è un’opera d’arte per la sua grammatica silenziosa. Nessun tutorial, nessuna mano che ti guida. Solo tu e il labirinto. Tutto quello che serve è lì: la forma degli sprite, la posizione degli oggetti, la ripetizione del ritmo. Un gioco che insegna se stesso mentre ti punisce: in questo, è più pedagogico e crudele di qualsiasi Soulslike. Non ci sono power-up, non ci sono salti, ma solo scelte: gira a destra o gira a sinistra; aspetta o corri; insegui o fuggi. È il gameplay ridotto all’osso — ma ogni osso è perfettamente incastrato nell’altro.
Livello 256
Come tutte le grandi storie, anche quella di Pac-Man ha il suo bug finale, il suo buco nero. Si chiama kill screen, livello 256, un glitch che spezza lo schermo in due e rende il gioco impossibile da completare. È come se il sistema, dopo un’intera vita a correre nel labirinto, si arrendesse. “Non ce la faccio più”. Fine corsa. Ma Pac-Man non muore. Rimane lì, in un angolo, ancora una volta a masticare pixel, in eterno.
La sua parabola, invece, continua.![]()
Dopo il boom arcade, Pac-Man si è moltiplicato come un’idea virale. La versione NES, quella su Game Boy, Ms. Pac-Man (che secondo alcuni è persino migliore, anche se Toru Iwatani non l’ha mai riconosciuta ufficialmente). Poi arrivarono le incarnazioni 3D, gli spin-off da dimenticare (Pac-Man World 3, un esempio che non vorrei citare…), e infine l’epoca delle resurrezioni neon-psichedeliche con Pac-Man Championship Edition DX, una delle cose più intelligenti mai successe a un gioco vecchio di decenni, che non riscrive il gioco, ma lo rende solo più veloce, cattivo martellante.
In mezzo, il cameo in Pixels (2015), un film in cui l’unica cosa memorabile è la scena in cui il creatore di Pac-Man viene morso da una versione gigante del suo stesso personaggio. Metafora perfetta del capitalismo culturale.
La fame non invecchia mai
Oggi Pac-Man ha quarantacinque anni. È tecnicamente più vecchio di molti dei suoi giocatori attuali, ma non ha mai veramente invecchiato. Non ha bisogno di reboot narrativi, non deve affrontare un passato traumatico per giustificare il suo presente. Non è Kratos, non è Joel, non è Snake. È solo un cerchio che corre ed è proprio in questa semplicità che c’è qualcosa di rivoluzionario, quasi punk.
Mentre l’industria si perde tra cinematiche in 4K, hub narrativi, skill tree e moralità flessibili, Pac-Man resiste. Con la bocca sempre aperta e la fame sempre accesa. È l’unico personaggio dei videogiochi che puoi disegnare con una fetta di pizza e capire subito di chi si parla. Non servono lore, timeline, prequel o multiversi.
Solo un labirinto. Quattro fantasmi. E il rumore inconfondibile di qualcuno che mastica il tempo con quel suono impossibile da rimuovere dal tuo cervello, se lo hai sentito per più di 20 minuti, eppure…
Ombre nel labirinto
E ora eccoci qui, quarantacinque anni dopo, con Pac-Man: Shadow Labyrinth pronto a uscire. Un titolo che suona come un ossimoro: l’eroe più luminoso dei cabinati si tuffa nell’ombra. Via le tinte fluo, via la spensieratezza da sala giochi anni ’80. Dentro un mondo più cupo, quasi esistenziale, in cui il labirinto diventa metafora — ancora una volta — ma stavolta del nostro presente.
E in fondo ha senso. Pac-Man è sempre stato l’uomo moderno: rincorre qualcosa che non sa definire, viene inseguito da paure che cambiano colore e comportamento, ogni tanto ottiene un potere momentaneo che lo illude di avere il controllo, poi torna tutto come prima. Ripete. Consuma. Corre.
Shadow Labyrinth, però, cambia il passo. Introduce una narrazione ambientale, sezioni stealth (!), livelli che si deformano come sogni febbrili, e un’estetica da Twin Peaks arcade. È Pac-Man, ma non è più lo stesso. Come noi. Come chi, nel 1980, infilava la monetina sperando di superare il record del tipo con la maglietta sudata. Solo che ora il record è la nostra memoria e il tempo non accetta “continue?”.
Cosa ci rimane, allora? Un’icona che non ha mai chiesto di esserlo, un cerchio giallo che diventa specchio della nostra fame, della nostra fuga, della nostra nostalgia. Un eroe senza volto, che non salva nessuno, ma ci tiene svegli da 45 anni.
E forse, proprio per questo, non è mai stato così umano.
Gran pezzo! Che fame però ora!