Pubblicato il 17/07/25 da Cathoderay

Donkey Kong: l’evoluzione di una scimmia colossale (e delle nostre dita)

Barili che volano

Se oggi Donkey Kong è una presenza rassicurante nel roster di Super Smash Bros, è bene ricordare che tutto iniziò con un rapimento, una scala e un barile.

Correva l’anno 1981, l’anno in cui l’America scopriva i sintetizzatori, i giapponesi gli arcade, e Shigeru Miyamoto lanciava nella storia una scimmia con gravi problemi comportamentali e un idraulico senza nome. Donkey Kong, titolo arcade nato quasi per caso, non solo inventa Mario (ancora Jumpman), ma fissa anche le regole del platform moderno: struttura verticale, difficoltà crudele, e quella sensazione inebriante che ogni salto sbagliato non sia colpa tua, ma lo è eccome.

La scimmia, ai tempi, non aveva ancora le buone maniere. Era un King Kong “pixelato” che rapiva Lady (Pauline solo in una seconda release) – la principessa beta prima della beta – e si difendeva con barili lanciati con nonchalance da un’impalcatura che sembrava uscita da un sogno febbrile di Escher. Il successo fu planetario, l’industria si risvegliò di colpo dal torpore post-Atari, e Miyamoto divenne il dio minore della silicon valley giapponese.

L’era dei sequel e l’imbarazzo degli anni ‘80

Il successo di Donkey Kong fu immediatamente diluito con l’arrivo dei sequel, com’è prassi nell’industria. In Donkey Kong Jr. (1982) succede il primo ribaltamento di ruoli della storia del medium: Mario diventa il cattivo e il piccolo Junior, figlio del gorillone, deve salvare il padre. Una lezione di empatia intergenerazionale, e un inaspettato assist all’educazione familiare.

Poi arriva Donkey Kong 3 (1983), che è… difficile da spiegare. Una roba con insetti, un giardiniere armato di insetticida e il nostro povero Kong appeso a due liane come un salame mentre il giardiniere spara agli insetti e alle povere chiappe dello scimmione. È l’inizio del buco nero narrativo in cui Donkey Kong si perde per un decennio. Una comparsa, un ricordo, un’icona stampata su qualche zaino delle medie.

Il ritorno della scimmia cool: Donkey Kong Country (1994)

Poi arrivò Rare, con i suoi render assurdi e l’intenzione dichiarata di prendere Donkey Kong, dargli un restyling e trasformarlo in una rockstar tropicale. Donkey Kong Country (1994) è uno shock per l’epoca: grafica pre-renderizzata “da sturbo”, soundtrack di David Wise che suona come i Genesis sotto ketamina, e una fluidità di gioco che fa impallidire qualunque altro titolo SNES; la narrazione è semplice: banane rubate, cattivo rettile con sindrome napoleonica (K. Rool), e DK che parte a spaccare tutto con l’aiuto di Diddy, una scimmietta in cappellino con carisma da vendere. Il gameplay è preciso, punitivo, elegante. I livelli acquatici sono poesia. Le minecart sono un trauma generazionale.

Rare continua la corsa: DKC2 – Diddy’s Kong Quest alza l’asticella con un’ambientazione dark e Dixie Kong, una scimmietta in gonnellina che ruota la coda come un elicottero. DKC3 chiude la trilogia con un altro cambio di spalla (Kiddy Kong, il primo infante con un body slam), nuovi enigmi e level design da capogiro, il Super Nintendo diventa l’araldo assoluto della scimmia lancia barili.

Donkey Kong 64: collezionismo patologico in 3D

Nel 1999 Rare tenta l’approdo in tre dimensioni; Donkey Kong 64 è un’opera mastodontica e controversa; cinque personaggi giocabili, mondi vastissimi, decine di strumenti e – soprattutto – una quantità di collezionabili che farebbe vomitare Marie Kondo. Le recensioni sono entusiaste, ma molti oggi lo ricordano con un misto di nostalgia e disturbo post-traumatico in cui serviva addirittura l’espansione di memoria del Nintendo 64, per giocarci. E poi c’è il DK Rap, un capolavoro di cringe che ha guadagnato più meme che stream.

La fase tribale: bonghi, rhythm game e la crisi d’identità (2004–2005)

Quando non sai più che fare con un personaggio storico, dagli uno strumento musicale. È una regola non scritta dell’industria – e Nintendo la rispetta con precisione svizzera; nel 2004 nasce Donkey Konga, un rhythm game per GameCube che si gioca con dei bonghi di plastica. Sì, proprio dei bonghi veri, con sensore sonoro e tutto. L’idea è bizzarra, ma funziona: le canzoni (che vanno da All the Small Things dei Blink-182 a Turkish March di Mozart, giuro) fanno ballare anche tua nonna. Il problema è che nessuno sa più se Donkey Kong sia un eroe, un DJ o il frontman di una tribute band dei Jungle Brothers.

Ma la vetta dell’assurdo è Donkey Kong Jungle Beat (2005): un platform puro, frenetico, e bellissimo… giocabile solo con i bonghi. Un paradosso perfetto. Saltare, picchiare e schivare a suon di tamburo è un’idea così folle da risultare geniale. Ma non era sostenibile. Né commercialmente, né per i polsi dell’utente medio.

La resurrezione ortodossa: Donkey Kong Country Returns (2010)

Dopo il momento ossessivo dei collezionabili  di DK64 e le percussioni compulsive del GameCube, Nintendo si affida a Retro Studios per un ritorno alle origini; Donkey Kong Country Returns (Wii, 2010) è esattamente quello che promette il titolo: la formula classica, rifatta da zero, con il giusto mix di nostalgia, precisione e sadismo.

Non ci sono più i Kremlings (lacrime), ma l’azione è fluida, brutale e magnificamente animata; Diddy ritorna con il suo jetpack e le atmosfere tropicali vengono reinterpretate con un gusto moderno. Il sequel, Tropical Freeze (Wii U, poi Switch), è probabilmente uno dei migliori platform 2D mai realizzati: livelli dinamici, musiche che toccano l’anima, e il ritorno di Dixie e Cranky Kong come personaggi giocabili.

David Wise torna alla colonna sonora come un profeta rinato. I livelli acquatici non sono solo belli: sono arte liquida, e siccome Nintendo non butta mai via nulla, ci rimasterizza anche Returns, arrivato di recente su switch.

Il presente: Donkey Kong Bananza (2025)

E oggi? Oggi siamo tornati. Donkey Kong Bananza è un’ode al passato e al futuro; riprende l’estetica di Country, ma la rinfresca con trovate moderne, un umorismo demenziale che non scade nel puerile e un level design che ricompensa tanto la precisione chirurgica quanto la pura esplorazione e la distruzione massiva del livello, un frullato di diversi gameplay che svecchia senza dimenticare.

È un gioco che conosce la sua eredità ma non ci si siede sopra. Anzi, la usa come trampolino per saltare ancora più in alto. I riferimenti alla trilogia Rare sono evidenti, i nuovi nemici funzionano, e le boss fight sono divertenti e non scontate, perché Bananza non è solo un gioco: è una dichiarazione d’intenti. Donkey Kong non è un brand da merchandising. È una macchina da gameplay con 40 anni di storia alle spalle e ancora barili da tirare, affidato alle mani del team che ci aveva regalato quella perla di Mario Odissey, non potremmo essere più contenti.

Epilogo: la scimmia che non smette di salire

In fondo, Donkey Kong è il personaggio più onesto di Nintendo; non parla, non salva principesse, non si veste da tanuki. Lui scala. Salta. Prende le banane e le difende coi pugni. E lo fa da quattro decenni.

Ha iniziato come villain, si è fatto padre, musicista, esploratore, persino giocattolo. Ma non è mai diventato noioso. Perché è uno di quei pochi personaggi che riesce a evolversi senza perdere il ritmo. E ogni volta che salta – che sia su un barile, una mina o un razzo improvvisato – a saltare con lui ci siamo anche noi.

E se dopo quarant’anni Donkey Kong continua a essere uno dei personaggi più amati del mondo Nintendo, non è per nostalgia. È perché è ancora dannatamente divertente.

E non c’è niente di più serio, per un videogioco.

Cathoderay - Biografia

Pare che io sia l'entropia videoludica.