Che i videogiochi esistano con il ben preciso scopo di divertire è una convinzione che mi porto dietro sin dalla tenera età, poiché, avendo iniziato la mia carriera videoludica con l’idraulico più famoso del mondo alternato a sessioni dedicate alla saga delle lumache d’acciaio, ho finito per innamorarmi perdutamente di tutto quel che fa del gameplay duro e puro il suo punto di forza.
Non saltate subito alle conclusioni però: questo editoriale non vuole essere uno dei soliti articoli controcorrente del tipo “i videogiochi non sono arte”, in quanto il sottoscritto si è goduto, giusto per citarne un paio, titoli come Journey e Superbrothers: Sword & Sworcery EP, non perfetti sul piano della giocabilità, ma campioni di level design e scelte stilistiche azzeccate, chiara espressione di chi è tranquillamente definibile artista.
Ricordate i bei tempi della prima PlayStation, in cui ci si scambiava i dischi tra amici e ci si divertiva con le killer application quali Crash, Spyro, Tomb Raider e compagnia? Beh, io no, perché ero il bambino scemo che aveva un Nintendo 64 e a cui Crash ha sempre fatto l’effetto di un ottimo lassativo, ma la cosa certa era che qualsiasi fosse la console e il gioco inseritovi, il divertimento non mancava mai.

Quello su cui voglio soffermarmi adesso però, è precisamente di come, negli ultimi tempi, l’intrattenimento videoludico stia sempre più diventando “una cosa per tutti” e al contempo rinnegando l’essenza dello stesso, relegando quest’ultima ad appannaggio di una sempre più ristretta nicchia di appassionati.
Ciò è causato, manco a dirlo, principalmente dai social network e dall’impiego ne fanno le persone, ora più intente ad informare i propri amici e parenti di essere entrati in possesso di un dato titolo, piuttosto che a divertircisi sbattendosene amabilmente di tutto e di tutti.
Non a caso l’attuale generazione di console consente la condivisione di file multimediali su tutti i maggiori siti di rilievo e ciò non fa che portare acqua al mulino di chi, purtroppo, acquista titoli solo perché così è di moda.
Tanto per fare un esempio, conosco gente che se il giorno prima non vedeva altro impiego per il DualShock se non quello di vibratore, in quello successivo stava tornando sorridente a casa con la propria copia fumante di Grand Theft Auto V fresca di day one e si era pure sparata un selfie con tanto di odioso filtro di Instagram per l’occasione.

Quindi un “grazie” va anche alla stampa online, ormai abituata ad ingigantire ogni cosa e marciare su una folla che si esalta per stupide comparative o per Kojima che perde un pelo di barba.
Finiti i tempi delle interminabili sedute sul trono con una bella rivista specializzata tra le mani, l’attuale diffusione di internet ha permesso un’istantanea propagazione delle news e con essa l’incipit per quel mistico processo che spesso porta a fare follie: l’hype. Grazie a questa simpatica bestiola, che ci logora dentro per tutto il periodo compreso tra l’annuncio di un titolo e il suo rilascio, spesso si è portati a commettere grossolani errori come l’acquisto di edizioni limited ultrapompate™ in cui l’unica incognita è proprio il gioco. A ben poco quindi servono le tonnellate di patch e DLC, se il titolo in partenza era stato pensato come soprammobile incline alla pubblicità gratuita, ai soldi facili (qualcuno ha detto WATCH_DOGS?) e nel bene o nel male, riesce comunque a far parlare di sé.

È cambiato quindi il modo di vivere il videogioco: ora è più il tempo passato a scannarsi su internet riguardo improbabili feature o ai due fotogrammi in meno o in più rispetto alla console avversaria, che le effettive ore trascorse a giocare.
Attenzione però, non sto dicendo che tutti i videogiochi delle ultime generazioni siano usciti male, semplicemente penso che se in passato le porcherie erano una minoranza rispetto al parco titoli di allora, al giorno d’oggi è l’esatto contrario, con tanto di bug e glitch che sembrano quasi messi a forza nel gioco (e a volte lo sono) piuttosto che essere normali errori di programmazione.
A tal proposito, quando il videogiocatore della domenica digievolve in Giulia Passione Beta Tester son dolori per tutti: addio ai bei tempi in cui si esploravano universi fantastici alla ricerca elementi di gioco preziosi o per il puro gusto di farlo, benvenuta caccia competitiva alle sbavature, in una corsa a chi le posta prima su Facebook.
Non stupiamoci quindi se dopo un disastroso lancio di Assassin’s Creed Unity, gli sviluppatori non ci provano nemmeno ad aggiustare le tonnellate di magagne che fanno bellamente in loro ritorno in Assassin’s Creed Syndicate, poiché ogni imperfezione (e sto facendo loro un complimento chiamandole così) equivale ad un video su Youtube del solito tizio urlante che, con una rabbia più finta del doppiaggio di Dinosauri, inveisce contro la software house per aver speso soldi a vuoto. Consapevolmente.
In definitiva, ritengo che l’intrattenimento intrinseco stia sempre più svanendo in favore di fattori esterni, i quali pian piano stanno portando il mondo videoludico a diventare come quello della moda: bei vestitini nuovi dalla durata sì e no mensile che lasciano il tempo che trovano, finendo irrimediabilmente nello scarico del dimenticatoio all’insegna della futilità e diventando infine spazzatura pagata profumatamente.
Ora la mia domanda è: quando abbiamo smesso di divertirci?