Pubblicato il 15/02/19 da Neko Polpo

Escape From Tarkov Closed Beta

2004: Tarkov è un carcere a cielo aperto. Entrarvi è impossibile. Fuggirne è da folli.

Introduzione

Battlestate Games è ormai da anni incastrata nello sviluppo di un titolo prettamente ambizioso per quasi ogni aspetto: gunplay curato, personalizzazione delle armi ed equipaggiamento autentica e realistica, nonché resa tecnica su Unity su cui han lavorato davvero tanto. Le premesse parlano di un titolo sicuramente di nicchia e che non è volto, giustamente, a far contenta la platea dei fan moderni degli shooter. Può, però, un titolo tale far contenti chi cerca una esperienza hardcore in tutto e per tutto?

La fuga più vera…

Escape from Tarkov è uno shooter multiplayer con elementi PvE, survival e da loot shooter, che lo rendono un progetto abbastanza atipico per il mercato in generale. Tutto questo, però, vale solo parlando della formula in sé, perché in diversi elementi di gameplay vediamo quella recente volontà di rendere gli sparatutto più complessi, con meccaniche catturate da altri generi, come accade nei battle royale. EFT, invece, si discosta da produzioni come il vecchio DayZ o altri esempi di sopravvivenza, andando a puntare più su una esperienza hardcore in tutto e per tutto.

L’aspetto più dettagliato, ma relativamente gratificante, è il gunplay: le armi hanno un comportamento abbastanza realistico, che si denota particolarmente nelle loro performance e comportamento durante lo sparo: se di per sé quest’aspetto è sonoramente riuscito, meno lo è il ”feedback” del gunplay, che non è appagante come avviene in altri titoli più o meno blasonati. Questo, unito ad un time-to-kill estremamente breve (salvo sorprese) rende il gioco punitivo e facilmente frustrante per chi non vicino ad esempi del genere. La quantità di armi e la loro profonda personalizzazione sono la ciliegina sulla torta, perché permettono una profondità nella gestione dell’arsenale folle, complice anche l’antiquato, ma sempre efficace, inventario con interfaccia ”drag e drop” (il che non è un male, visto la appunta natura da loot shooter del titolo).

La progressione del personaggio in sé, che non è propriamente vincolata al resto del gioco, permette di spendere l’esperienza ottenuta salendo di livello per sbloccare perk e quant’altro: essi si rivelano fondamentali per migliorare le nostre chance di survival, essendo la morte permanente del personaggio (che consegue, però, solo nella perdita di tutto l’inventario trasportato) molto facile da raggiungere.  Oltre ad esplorare ogni diverso livello, il gioco offre poco: di per sé l’interazione con l’ambiente è ben approfondita negli interni degli edifici, dando motivo di andare a fondo nei livelli in cerca di risorse di qualsivoglia natura.

Il colpo d’occhio è riusciuto, ma bastano pochi secondi di gioco per accorgersi di come il titolo ha bisogno di uno shading tutto nuovo.

…ma dove? E perché?

Non si sa se bisogna dar colpa a Miyazaki e Dark Souls per la moda di narrare senza narrare, o senza animare i personaggi: fatto sta che Escape from Tarkov ha una ambientazione effettivamente interessante e dettagliata, la quale viene però esplorata ben poco nel gioco base. Non è sicuramente il focus dell’esperienza (e anche qui c’è da parlarne), ma perché non donare giuste attenzioni ad una delle componenti del prodotto che, a modo suo, nel forum genera così tante discussioni (seconde solo alle richieste di rimborso, velocemente cancellate)?

Il problema però non è solo questo. Il gioco manca di un effettivo obiettivo a lungo termine o, in generale, di un motivante per tornare a riprovare. Eventi giornalieri, settimanali, quest interessanti, storyline e quant’altro potrebbero diventare lo scheletro di una produzione che riuscirebbe, come minimo, a destare interesse da parte chi apprezza la formula dei loot shooter. Il sistema di gioco, poi, è radicalmente diverso da altre esperienze presenti sul mercato, e potrebbero renderlo sempre più unico nel suo genere. La mancanza di focus si traduce in sessioni di gioco volte all’esplorazione a caso, che in base alla vostra conoscenza della mappa di gioco (e conseguentemente del numero di sessioni o tutorial su YouTube che avete usato) porterà alla morte o alla fuga dal territorio.

La varietà delle mappe, ad ogni modo, aiuta relativamente il titolo, compensando la formula di base poco esplorata ed approfondita. Ciò che invece viene esplorato, invece, è la creatività che ha il titolo nel farvi morire per mano di bot di ogni sorta. L’aspetto hardcore del gioco è apprezzabile e in linea con difficoltà più abbordabili di altri titoli (‘sta roba si sogna di essere S.T.A.L.K.E.R. a difficoltà Master), se non fosse che l’arma migliore a disposizione degli altri è il netcode. Quello sarà la vostra croce.

La gestione dell’inventario è profonda al punto giusto, ma finisce qua. Il resto è una martoriosa sezione di tantissimi click di cui tutti potevamo fare a meno.

Il retaggio che non volevamo

Una moda ”recente” tra tantissimi sviluppatori ucraini (o comunque est-europei) è quella di ammettere di esser stati parte del team GSC Game World che ha prodotto la serie di S.T.A.L.K.E.R., e che ciò conseguentemente sancisce il loro prodotto come ”seguito spirituale” o perlomeno ispirato ad esso. Se con “ispirarsi” intendono “produrre un gioco tecnicamente pesante, dalla presentazione arretrata e problematico a livello di stabilità” allora sì, ci siamo, il retaggio è stato rispettato. Se invece parliamo di un titolo che ovviamente non mira a replicare S.T.A.L.K.E.R. nella sua interezza, ma vuole ricalcarne l’aspetto survival… non ci siamo comunque. Non perché mancano anomalie e mutanti, quanto perché anche S.T.A.L.K.E.R., con tutti i suoi problemi, sa quando c’è bisogno di un po’ di miglioramenti nella quality of life del prodotto. Su EFT, invece, l’esperienza ‘‘hardcore” si traduce in complicazioni inspiegabili in ogni aspetto del gioco, dal gameplay alla stessa comprensione della progressione. Perché, se c’è, il gioco poteva anche specificarla.

Son cose che già sentimmo da parte di Vostok Games, che ha sviluppato quello sbaglio di nome Survarium; qui, tali affermazioni, non fanno altro che semplicemente sottolineare come il pedigree di Battlestate Games sia quello del team da cui sono nati, ovvero i produttori di Contract Wars, uno shooter per browser, sempre basato su Unity. La parte tecnica del gioco è sicuramente di alto livello, specie se lo paragoniamo al resto dell’ecosistema basato su Unity (che viene comunque usato con più successo da giochi come Furi), ma appena il confronto si sposta verso altri esponenti del genere shooter in generale, anche senza contare i giganti dell’industria come Battlefield o Call of Duty, il titolo pare provenire da qualche era precedente. Il tutto è causato non dalla qualità degli assets in sé, quanto dalla presentazione del titolo e dal bisogno inspiegabile che ha di donare all’ambiente una saturazione inesistente; la visibilità dei personaggi è peggiore di Battlefield V e non aiuta affatto l’esperienza, di base già frustante. Sempre parlando del lato tecnico, ma in un altro ambito più specifico, l’online è uno dei peggiori mai visti nel genere, con ping e packet loss che sembrano arrivare da paesi del terzo mondo. Ma, ehi, hai visto che belli che sono i modelli di fucili e mirini?

Conclusioni sull’anteprima

Escape From Tarkov è un progetto che difficilmente vedrà un forte dietrofront per quanto riguarda la struttura del gioco e la sua progressione, ma potrebbe prender esempio dai modelli di successo moderni. La sua natura ibrida e la necessità dell’online per avere una esperienza completa (se non si vuole vivere di solo singleplayer) lo rendono un gioco che difficilmente vivrà e godrà di uno stato di salute ottimale, viste anche le premesse tecniche che abbiamo vissuto con le versioni alpha e beta. Il tempo di migliorarlo c’è… ma se un gioco non ha obiettivo fin dall’inizio, difficile che lo trovi a lavori quasi conclusi.

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