Pubblicato il 02/03/16 da Neko Polpo

The Town of Light – L’orrore sotto la luce

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Deprimente, asfissiante, claustrofobico, raccapricciante, perverso, malinconico, doloroso, frustrante.
Raramente si ha difficoltà a scrivere un cappello di una review, ma le sensazioni che ti lascia The Town of Light sono quelle che ho elencato poco sopra. Il titolo sviluppato dai ragazzi fiorentini di LKA.it – che abbiamo intervistato recentemente – arriva finalmente in redazione per essere passato al setaccio.
Presentato quasi umilmente al pubblico poco tempo fa per diventare poi il fiore all’occhiello di Microsoft durante l’ultimo ID@Xbox, The Town of Light è un prodotto indie coraggioso che tenta di porre il giocatore all’interno di uno spazio-tempo culturale realmente esistito, ambientato nell’ex Ospedale Psichiatrico di Volterra.
Gli anni in cui prendono vita il titolo e la sua protagonista vanno dai ’20 fino al ’43, idealmente nel pieno del regime fascista e poco prima del secondo conflitto mondiale. Renée T., al centro di questa macabra e triste vicenda, è una donna che viene ricoverata e distrutta pezzo per pezzo nel fisico e nella psiche man mano che il gioco avanza nelle sue istanze.

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Il padiglione Charcot sarà la nostra prima tappa.

Recensire un gioco che fa della storia e delle vicende narrate l’unico perno su cui adagia tutta la sua struttura, senza incappare negli spoiler, è sempre un compito difficoltoso: la protagonista principale viene ritratta come una voce che ci parla, comunica, sente e tenta di ricordare con fatica gli eventi passati. Non ci è ben chiaro, esattamente, chi il giocatore stia impersonando durante l’avventura, se la stessa Renée o semplicemente qualcun altro che sta tentando di ricostruire cosa le sia successo.

Nonostante gli sviluppatori nell’intervista abbiano descritto Renée come la protagonista principale (ed è corretto, dopotutto), lo svolgere del gioco ci porta a dubitare di chi o che cosa in realtà stiamo impersonando. Questa situazione può trovare indubbiamente più chiavi di lettura, in quanto potrebbe semplicemente indicare uno sdoppiamento della personalità, ulteriormente rafforzato dai diversi dialoghi in cui bisogna interagire con questa “voce” che ci accompagna ad ogni passo, dettando lentamente le azioni e i posti da visitare. Ma, allo stesso tempo, ci fornisce diversi appigli che ci lasciano pensare a come sia impossibile che sia la stessa Renée, per motivi che poi appariranno lentamente lampanti durante l’avventura.

La mole di lavoro spesa dallo studio nel ricostruire l’ormai in rovina ex ospedale è di grandi proporzioni. Notevole cura si è prestata alla rappresentazione dello stabile e della zona in cui vi è contenuto, tanto da sembrare fotorealistico e di grande immersione. I tre padiglioni (Ferri, Charcot e Maragliano) sono immersi in paesaggi diroccati, circondati da piccole baracche logorate dal tempo: le facciate con l’intonaco ormai deteriorato e dagli infissi ormai arrugginiti fanno da sfondo ad un ambiente inquietante che già nella sua forma originale – probabilmente era avvolto da un’aria tetra e cupa. Allo stesso modo altri luoghi presenti nella zona sono stati ricostruiti con una cura impressionante, quasi maniacale, come il cimitero, la serra o l’orto, dove il tempo sembra essersi fermato.

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Il fogliame è tutto animato, sebbene notarlo sia spesso difficoltoso.

Curiosamente, come in genere ci si aspetta da questi titoli, il gioco non è ambientato di notte e non presenta molte sezioni buie e oscure: in quelle poche occasioni sarà possibile utilizzare la torcia al fine di aiutarci meglio nell’esplorazione, sebbene la portata effettiva dell’illuminazione che essa emette è molto relativa.
Le fronde degli alberi e l’erba si muovono delicatamente e lentamente al passare del vento, in un quadro che immerge il complesso all’interno di un’assolata giornata d’estate o di piena primavera. Le tonalità quasi fanno percepire il calore caldo del sole, i raggi di luce che si insidiano tra i rami e i vecchi infissi che tentano di distogliere il giocatore da quel senso di inadeguatezza in cui si trova.
La ricostruzione interna dello stabile lo rappresenta, almeno nelle fasi iniziali, come appare oggi: le mura ormai hanno parzialmente perso l’intonaco risultando rovinate e logorate dal tempo, i vetri rotti accompagnano grandi finestre divorate dalle intemperie, così come le porte e elementi d’arredo.

Nonostante l’ospedale sia ancora popolato da molti dei suoi arredamenti, come appunto scrivanie, sedie e altre attrezzature, l’interazione con essi è praticamente nulla, portando ad un leggero disappunto da parte del giocatore. L’esplorazione è largamente castrata, nonostante sia possibile visitare la maggior parte delle stanze dell’ospedale: in esse non troveremo niente di utile o da vedere, se non sporadiche interazioni con documenti e oggetti.
Questo introduce una certa ripetitività nei contenuti delle stanze presenti nel nosocomio, dove purtroppo la possibilità di aprire qualche anta o chiudere qualche porta non aiuta a scacciare via quel senso pesante e opprimente di linearità obbligatoria.
Gli altri elementi che fanno da contorno al carattere dell’ospedale, invece, sono a mio avviso di pregiata realizzazione e rappresentazione. Sarà facile soffermarsi ad ammirare la genuina ricostruzione delle targhette ottonate di un tempo, degli interruttori di corrente, dei quadri raffiguranti il Duce e il movimento fascista italiano, così come sarà facile rimanere ammaliati dai vari documenti medici/tecnici che si trovano sparsi nelle varie sale (tralasciamo poster strappati di eventi a Salsomaggiore Terme).
Riproduzioni fedeli di libri di medicina dei primi del ‘900 mostrano come in campo scientifico l’esplorazione del corpo umano, dalle operazioni chirurgiche ortopediche a quelle ben più invasive come quelle cerebrali, rimaneva parzialmente un mistero: crea quasi un senso di disagio osservare le pratiche che venivano attuate in medicina a discapito dei poveri abitanti del comprensorio.
E Renée, purtroppo, ne sperimenta diverse sulla sua pelle: ciò che il gioco dipinge, forse usando la storia della ragazza come una scusa, è una situazione terribile e opprimente che per molti anni ha visto prendere luogo in questo ospedale e in quelli sul territorio nazionale, fino alla loro chiusura grazie alla legge Basaglia del 1978.

Il titolo ci schiaffeggia nelle prime istanze di gioco, senza ritegno e senza il minimo tatto, con temi pesanti da gestire e particolarmente duri, agghiaccianti, disturbati, complessi: la perversione sessuale, la malattia mentale, il dolore misto a grida e affanno vengono costantemente portati a galla, con un sapiente collegamento al fenomeno storico e culturale di quel tempo.
La caratterizzazione di alcuni personaggi come gli infermieri sembra essere stata concepita dal punto di vista di una persona affetta dal terrore, dal disturbo psicologico, dall’anima marcita nell’oscurità di un luogo come quello: essi appaiono sempre ai nostri occhi come calvi, dai lineamenti grezzi e bifolchi, dagli sguardi vuoti e da un fisico prettamente sovrappeso. Queste figure maledette, viste come tiranni e rapitori, vengono più volte dipinte dal contesto del gioco come quelle che avevano in realtà il pieno controllo dell’istituto: esseri potenti in grado di fare ciò che più aggrada loro in quanto la maggior parte delle persone ricoverate –  considerate la feccia, lo scarto del mondo non era in grado di difendersi o ribellarsi.
E così che tra un ricordo e un pezzo di carta il gioco ci parla di abusi sessuali, di percosse, di violenze, di istinti animaleschi e barbarie, il tutto accompagnato da continue frapposizioni di altre figure come il crocefisso, le preghiere, le suore o i medici, che, sebbene incarnino un aspetto leggermente più rassicurante visto il loro ruolo, non fanno nient’altro che alimentare il disagio che proveremo nel realizzare che tutto questo accadde realmente, sotto la loro attenzione, quasi a renderli complici dell’orrore.
Le istituzioni cattoliche rappresentate pertanto non facevano nient’altro che assecondare ciò che accadeva lì dentro, compiendo il semplice gesto di voltarsi dall’altra parte, quasi ad accettare una realtà distorta e malata ai danni degli scarti della società.

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La frustrazione quando si raggiunge questo punto, con una lentezza tale da impiegarci minuti, solo per scoprire l’ennesimo muro invisibile.

Una cosa che ho gradito è la possibilità di analizzare diversi documenti reali del tempo, sparsi nelle varie stanze: cedolini di ammissione, cartelle cliniche, rapporti medici e semplice corrispondenza dimostrano quanto il lavoro di ricostruzione e caratterizzazione si sia spinto ben oltre la semplice ricostruzione poligonale della struttura.

L’aspetto grafico, nonostante dimostri di avere un certo spessore come descritto (in termini di sensazioni comunicate), non è comunque privo di difetti: il motore usato, Unity, è indubbiamente in grado di donare scorci di un certo effetto, ma purtroppo dimostra immediatamente la sua limitata portata sia nelle animazioni che nella gestione della fisica. Nei frangenti in cui vengono mostrati altri personaggi non sarà difficile notare come questi siano animati come burattini ambulanti che, faticosamente, sembrano eseguire delle azioni spartane e robotiche.
Le espressioni facciali sono praticamente assenti, se non per qualche breve accenno in sporadiche situazioni: l’illuminazione fa un lavoro decente, anche se chiaramente non è in tempo reale, sebbene la meccanica di interagire con gli interruttori e vedere le vecchie lampade neon lentamente accendersi illuminando di poco l’ambiente lasci piacevolmente impressionati.
Da un’analisi puramente tecnica è chiaro che il problema è la grande limitazione di Unity che, nonostante sia maturato tantissimo nella sua quinta versione, rimane ancora un engine non propriamente all’altezza di altri mostri sacri come Unreal Engine, Chrome EngineCryEngine, che sicuramente sarebbero stati i migliori candidati per quest’opera indie. Ad ogni modo la possibilità di usare un Oculus Rift (il gioco fu un vero e proprio centro d’attenzione di questa tecnologia) rende il comparto grafico sicuramente d’effetto.
Le sapienti illustrazioni, sempre adeguate e con uno stile preciso, sono realizzate dalle eccezionali mani di Arianna Bellucci e Elena Bartolomei, che riescono a conferire quel lato macabro ma anche spietato e realistico alle scene d’intermezzo.
Infine leggo che il gioco sembra essere particolarmente pesante anche su configurazioni medio-alte. Io personalmente l’ho giocato senza nessun problema, mantenendo costantemente i 60 fps con tutte le impostazioni al massimo (i7-3770k e GTX 970, su Windows 10).

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Le illustrazioni sono molto evocative ed estremamente inquietanti.

L’aspetto tecnico, tuttavia, non è l’unico sottotono, in quanto la giocabilità è minata anch’essa da diverse scelte di design molto discutibili: in passato giochi simili nella struttura filo-narrativa e tecnica, come Gone Home, Dear Esther e Anna, sebbene improntati sulla linearità mista ad una falsa esplorazione a 360°, cercavano comunque di rendere l’esperienza piacevole e con una buona dose di interazione da parte del giocatore, includendo puzzle più o meno complessi e in alcuni casi scene con un pizzico di azione.
Ad eccezione di pochissimi elementi, come descritto in precedenza, l’ambiente risulterà poco esplorabile e poco interattivo, situazione ulteriormente aggravata dall’assenza di vere e proprie sfide. La ricostruzione del presidio ospedaliero nei suoi minimi dettagli, come stanze piene di elementi vissuti e sporcizia, è da un lato vitale per l’immedesimazione del giocatore nella storia, ma a sua volta ci distoglie spesso senza nessun risultato, quasi a punire la curiosità che poi culmina irrimediabilmente nel dissapore.
Avremmo apprezzato l’introduzione di più documenti sul background storico di Renée, dell’ospedale, dei suoi dottori e infermieri (e anche di altre persone, ad esempio un’occasione sprecata è l’archivio della corrispondenza), specialmente come collezionabili, e invece no: la linearità sarà talmente ferrea e dura che proprio non sarà difficile notare di quanto si sarebbe potuto fare con un ambiente di quelle proporzioni.
A peggiorare la situazione va calcolata anche la certezza di una minaccia inesistente, che in nessun modo pone il giocatore in uno stato di ansia ricorrente, come potrebbe essere quello di Silent Hill o di qualsiasi altro gioco horror che condivide ambientazioni simili (Outlast ad esempio): il gioco per come è strutturato e per come scorre in realtà diventa una sorta di storybook interattivo, un cortometraggio, una storia da raccontare davanti ad fuoco di campeggio.
Forse avrebbe potuto trovare più giustizia se fosse stato realizzato come una visual novel piuttosto che come un’avventura in prima persona. Il pacing del gioco, il suo ritmo, è gravemente minato dalla lentezza frustrante con il quale possiamo muovere il nostro personaggio, essendo assente un tasto di corsa. Ed errore ben più grave è la costrizione, da parte del gioco, al doversi sorbire questa lentezza che viene anche più accentuata in alcune sezioni: se sbagliate strada perché volevate curiosare un posto, che poi sicuramente sarà inaccessibile o dietro a un bel muro invisibile, vi sentirete a dir poco adirati al solo pensiero di ripercorrere la strada per tornare indietro.
Comprendo che la scelta sia quella di fare immedesimare il più possibile il giocatore nella situazione che sta vivendo, ma d’altro canto potrei sostenere che, se questa è la vera intenzione, scegliere un approccio 3D in prima persona è stato un azzardo.

Il comparto sonoro, per fortuna, fa il suo dovere: niente di indimenticabile, ma la pregiata cura riposta negli effetti ambientali esterni e interni è sicuramente da notare, compreso lo score musicale che si rende sempre adeguato alla situazione.
Il doppiaggio italiano sembra quasi sempre sul pezzo, appropriato e ben caratterizzato, specialmente dal punto di vista dell’interpretazione: Renée esprime sensazioni di felicità, dispiacere, malinconia, disprezzo, terrore, odio, curiosità.

Con una longevità che tocca le 3 ore nella prima run, il titolo ci consente di ritornare in uno dei 12 capitoli per sbloccare path alternativi, al fine di visionare diversi ending e sbloccare più achievement, quindi quantomeno una buona dose di rigiocabilità c’è.
Concludendo, The Town of Lightdisponibile a 18,99 € per PC e, durante il corso del 2016, anche per Xbox One, nonostante presenti una durata un po’ debole e qualche problema tecnico di troppo, mi sento di consigliarlo.
La cura maniacale riposta nel prodotto, nella ricerca storica e nella sua rappresentazione lo rende un acquisto obbligato per diverse ragioni: la prima – indubbiamenteè la provenienza del titolo, totalmente tricolore (orgoglio italiano!). La seconda è perché, anche se Renée è un personaggio di fantasia, tutti dovrebbero venire a conoscenza dell’orrore e di un pezzo di storia macabro della nostra Italia. L’impegno che i ragazzi di LKA.it hanno riposto in un titolo che è anche il loro debutto mondiale è senza dubbio meritevole di ricompensa, perché al di là delle problematiche è capace di generare un turbine di emozioni belle e brutte nel giocatore.
Fatelo vostro se amate la storia e se vi attira il genere dell’avventura dai toni molto maturi.

POLIPI TOWN OF LIGHT

  • Storia
  • Renée
  • Audio di buon livello
  • Doppiaggio
  • Illustrazioni eccellenti
  • Ricostruzione storica dell'epoca
  • Piacevole graficamente...

 

  • ...ma scarno in molti punti
  • Giocabilità minata da limiti assurdi
  • Zero esplorazione
  • Linearità eccessiva
  • Corto

NekoPolpo - Biografia

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