Pubblicato il 13/09/18 da Neko Polpo

Dragon Quest XI: Echi di un’era perduta

Draghi classici
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Parlare di Dragon Quest non è esattamente la cosa più facile del mondo: durante gli anni passati se n’è detto di tutto e di più, quello che bisogna conoscere lo si conosce e quel che resta ignoto rappresenta la minima parte che il brand si riserva per sorprendere il giocatore, ammesso che questo sia nei piani degli sviluppatori.

Perciò, tra estimatori di vecchia data e detrattori con la fissa per l’innovazione, per quanto se ne dica, l’unica certezza è che Dragon Quest XI: Echi di un’era perduta è un titolo di una certa levatura, fortemente ancorato alle sue radici ma non per questo incapace di rinnovarsi, seppur ciò avvenga in maniera più timorosa e pacata rispetto alla concorrenza. La serie ideata nel 1985 dal talentuoso Yuji Horii ha dato i natali a molte delle meccaniche presenti in numerosi titoli ed è riuscita, nel corso degli anni, a ritagliarsi una nutrita fetta di pubblico tra gli appassionati del genere.

Non è un mistero quindi il perché ogni buon “jrpgista” ha atteso con trepidazione l’uscita dell’undicesimo capitolo, seppur con qualche incertezza dati gli alti e bassi della saga.
La domanda è oltremodo lecita: è davvero valsa la pena aspettare così a lungo? Assolutamente sì.

Il tranquillo villaggio di Roccapietra sarà il nostro punto di partenza.

La storia di Dragon Quest XI si attesta sui canoni a cui la serie ci ha abituati senza strafare, cercando di rimarcare quanto di buono è stato fatto in passato e sfruttando come meglio può le nuove tecnologie dell’hardware moderno.

Il protagonista, trovatello cresciuto in uno sperduto villaggio montano, ben presto apprende l’amara verità: egli si scopre essere l’ennesima reincarnazione del Lucente, un eroe leggendario che appare ogni qualvolta il mondo viene minacciato dal Signore Oscuro. Considerato un male per alcuni poiché preludio di sventura, l’eroe è costretto a fuggire, iniziando così un viaggio che lo porterà a conoscere nuovi e pittoreschi personaggi che man mano si uniranno alla sua banda di avventurieri.

Ciò che davvero rende speciale il comparto narrativo del titolo non è tanto la trama in sé, quanto piuttosto i suoi protagonisti dotati di una caratterizzazione eccellente e capaci di far affezionare il giocatore ad essi in poco tempo. D’altronde è il viaggio che conta e non la destinazione, un concetto che il titolo spiega benissimo attraverso le circa 50 ore necessarie a terminare una campagna principale che ci farà girare il variopinto mondo di gioco in lungo e in largo tra fitte foreste, paesaggi innevati, lande desertiche e le consuete città – tutte enormi e ispirate da culture diverse – in cui fare man bassa di oggetti e subquest.

Il cavallo è un ottimo modo per viaggiare poiché capace di investire i mostri più piccoli.

Pad alla mano non c’è poi così tanto da dire dato che, a grandi linee, il titolo prende tantissimo da quel Dragon Quest VIII che anni orsono fu capace di estasiare i possessori di Playstation 2: parliamo di un JRPG di stampo classico con un combat system a turni basato sulle statistiche come attacco fisico e magico e rispettive difese, destrezza e agilità che influenzano la possibilità di effettuare colpi critici, schivare attacchi e ovviamente l’ordine dei turni.

È possibile impostare tattiche su tutti i membri del party in modo che l’intera situazione venga gestita dall’intelligenza artificiale, molto migliorata rispetto al passato e che riesce ad alleggerire il peso che il gioco ha sul giocatore (gestirsi manualmente centinaia di battaglie non è una situazione propriamente idilliaca, sebbene qualche masochista possa affermare il contrario). In questo senso, i primi veri elementi di rilievo sono rappresentati dalla possibilità cambiare i membri attivi del party anche durante le battaglie e dai cosiddetti “poteri pimpanti” che si attivano una volta subita una certa quantità di danni, rendendo i personaggi temporaneamente più forti e capaci di attivare speciali attacchi combinati.

Da notare poi una modalità che consente di muovere liberamente gli avventurieri in giro per l’arena di battaglia, completamente inutile a fini del gameplay in quanto il posizionamento non influisce minimamente sull’andazzo del combattimento.

In qualsiasi ora del giorno, il gioco riesce a regalare scorci apprezzabili.

Parlando dell’esplorazione, altro fiore all’occhiello del titolo, essa risulta d’importanza vitale, in quanto vagabondare per le vaste macro-aree che compongono il mondo significa perdersi in diramazioni conducenti sempre a qualcosa di più o meno utile alla bisogna e fortunatamente l’edizione nostrana comprende un utile scatto a disposizione del protagonista, gradita aggiunta che  però forse rende un po’ inutile il cavallo.

A rendere più interessante il peregrinare ci pensa l’implementazione dei mostri cavalcabili: tra la fauna, che per l’occasione può vantare diverse new entry, vi saranno alcune bestie scintillanti che se sconfitte potranno essere cavalcate e utilizzate per raggiungere luoghi altrimenti inaccessibili. Come nel remake dell’ottavo capitolo per 3DS, è infatti possibile vedere i nemici aggirarsi liberamente sul campo, potendo quindi evitare la maggior parte delle battaglie nel caso se ne abbia la necessità, fattore che agisce come modificatore della difficoltà (oltre a quelli veri e propri presenti nell’edizione nostrana) in quanto arrivare sotto-livellati agli scontri più impegnativi richiede una buona dose di materia grigia più che di statistiche.

C’è da dire che la difficoltà è mai proibitiva, anzi per i più avvezzi al genere il gioco potrebbe risultare anche troppo facile: di positivo c’è che non sentirete mai il bisogno di grindare, ma nel caso decidiate di farlo, il titolo vi faciliterà ancor di più le cose grazie alla presenza di accampamenti sparsi qua e là ove far riposare il party e dedicarsi alla Forgiatura, minigioco utile a potenziare il proprio equipaggiamento.

Difficilmente un combattimento sarà in grado di impensierirvi, ma quando succederà dovrete spremere le meningi.

Sul piano prettamente tecnico c’è davvero poco da scrivere e molto da guardare: Dragon Quest XI è semplicemente una gioia per gli occhi.

Caratterizzato dal magnifico tratto di Akira Toriyama, il titolo si manifesta visivamente in un connubio di modelli poligonali rifiniti nei minimi dettagli e texture in alta risoluzione (con qualche sbavatura qua e là) che si amalgamano con una maestosa illuminazione dinamica regalata dal ciclo giorno-notte ed effetti particellari di prim’ordine. Anche il framerate risulta abbastanza stabile poiché ancorato ai 30 fps nella maggior parte dei casi, presentando qualche incertezza nelle situazioni più affollate, almeno su PS4 Standard. Menzion d’onore poi per le animazioni dei mostri, tutte azzeccate e gradevolissime alla vista; un po’ meno quella dedicata al salto del protagonista, piuttosto legnosa e artificiale.

Se proprio dovessi trovargli un difetto, il mio occhio ricadrebbe sulla realizzazione dei dungeon, principalmente realizzati come corridoi che lasciano ben poco al giocatore, nulla di lontanamente comparabile ai piccoli capolavori presenti in Persona 5. Ottime le musiche, seppur il formato midi lasci a desiderare quando comparato alla colonna sonora orchestrale della versione giapponese; altalenante il doppiaggio anglofono che alterna momenti di buona recitazione ad altri decisamente dubbi.

Scusi, lei sa di trovarsi in un JRPG?

Dovendomi quindi ripetere visto che il verdetto ve l’ho già dato in capo d’articolo, Dragon Quest XI: Echi di un’era perduta è nientepopodimeno che un capolavoro, uno dei migliori JRPG che possiate mai giocare, appassionati e non: un po’ come quelle fiabe che i vostri genitori vi raccontavano da bambini, ostenta una semplicità di base disarmante che nella sua essenza cattura ed emoziona, rallegra e rattrista. E come la migliore delle fiabe, purtroppo prima o poi finisce.

  • Vasto, longevo, divertente
  • Comparto tecnico di prim'ordine
  • L'edizione nostrana presenta notevoli aggiunte

 

  • Chi cerca innovazioni sostanziali rimarrà deluso
  • La modalità libera non serve a niente
  • Qualità del parlato altalenante
  • Facilotto

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